Numero 4 del 2006
E ora scendiamo in campo noi
Testi pagina 40
Alle origini della propria teoria dell'e-sperienza Walter Benjamin, uno dei
filosofi più significativi del secolo che si
è appena concluso, pone una domanda
che ha dell'assurdo, come spesso
appaiono quelle dei bambini.
Rievocando alla distanza dei ricordi,
in una lettera a Theodor Adorno, le pro-
prie passeggiate con il fratello
nei luoghi della consuetu-
dine familiare, nei soliti
posti di quando erano
piccoli, d'estate, scrive
infatti:
E dopo che avevamo
visitato una delle mete d'ob-
bligo delle nostre escursioni,
mio fratello soleva dire "dunque,
saremmo stati qui". Questa for-
mula mi si è impressa in modo
indelebile nella memoria.
Dunque, saremmo stati qui.
Questo condizionale ci spiaz-
za.
Ci siamo stati davvero nei
luoghi dai quali siamo appe-
na tornati?
Secondo Benjamin, nel
nucleo della questione del-
l'esperienza sta dunque la
percezione di un dubbio. Di
un dubbio dalla natura così
scompaginante.
Di non sapere chi siamo.
Il non essere affatto certi della nostra
identità, e neppure del nostro passato
più prossimo.
Non sai mai dove sei - come scrive
Giorgio Caproni - e non sei mai dove
sai.
Ammettere di non sapere chi siamo e
dove siamo è segno di estraneità e di
una specie di lucido disordine, ma è
anche una sensazione che ci porta fuori
dal senso comune, che mette in questio-
ne il quotidiano e l'ovvio e afferma la
necessità di affidarsi a un sapere disabi-
tuale.
Per tornare all'interrogativo di
Benjamin dal quale siamo partiti, il
dubbio sta dunque sulle soglie dell'espe-
rienza e dove non esistono dubbi non c'è
sapere.
Contro ogni logica, sarebbe quindi
necessario, per acquisire conoscenza di
sé e del mondo, dubitare dell'evidenza,
del vissuto e dello sperimentato.
E quando eravamo presenti? Quando
abbiamo visto con i nostri occhi?
Io c'ero. Io lo so.
Il senso comune, l'opinione corrente
non si rivela altro, spesso, che una
costruzione intesa a tenere i dubbi fuori
della nostra portata finché è possibile. E
gli interrogativi vengono respinti ai
margini perché sono troppo dif-
ficili da sostenere.
Il senso comune, quello
che tutti pensano, ciò in
cui tutti si riconoscono e
che il più delle volte
deriva da un insieme di
postulati irragionevoli e
di esperienze frettolosa-
mente generalizzate, ci per-
mette sì di tirare avanti, di
affrontare gli ostacoli abituali
delle più prevedibili contingenze
della vita, ma ci spinge anche alla
morte nella banalità, alla sequenza
tediosa delle frasi fatte, alla chera-
tinizzazione della coscienza di
fronte al nuovo, di fronte all'altro.
Il preteso senso comune, l'evi-
denza troppo perentoria uccido-
no la curiosità.
In questi casi, lo smottamen-
to provocato da un dubbio, l'in-
sinuarsi in noi di una domanda
può mettere in moto una qualche
verità. Rivelarci il mondo da un'altra
prospettiva.
Il divenire sotto il pungolo del dub-
bio significa qui apertura, trasformazio-
ne, ardimento. Praticare una forma di
attenzione che ci tuteli dalla dispersione
nell'ordinario e nel conforme, che dia
spessore e risalto agli eventi anche mini-
mi - come se fossero attraversati da un
significato che non si vede perché scorre
sotto, molto sotto, come una vena d'ac-
qua segreta.
Figlia del dubbio, scaturigine dell'in-
certo e del non assodato, l'esperienza
non può che maturare per strada, all'a-
perto, in viaggio. Non solo in senso
metaforico.
A che gli chiede che vai a cercare?,
André Gide, in partenza per il Congo,
risponde vado laggiù per saperlo.
Le piccole comunità di villaggio del
medioevo, gli agglomerati di casupole
strette l'una all'altra nelle radure a mar-
gine del bosco o dentro alla doppia
cinta di mura del castello, componeva-
no al proprio interno una trama fittissi-
ma di relazioni di parentela, di vicina-
to, di proprietà indivise e di diritti
comuni.
I rapporti quotidiani di sangue, di
legge e di scambio facilitavano inevita-
bilmente l'accumularsi di piccoli sopru-
si che finivano per alimentare una
lunga catena di dispetti e di rancore, di
malanimo, di insofferenza e di litigiosi-
tà. E anche le questioni di poco conto si
trasformavano col tempo in un grovi-
glio complicato i cui nodi non era più
possibile sgarbugliare.
Fino a che l'integrità del gruppo veni-
va lacerata da conflitti spesso sangui-
nosi, e si moltiplicavano le colpe che
nemmeno l'autorità del sacerdote del
villaggio riusciva più a dirimere e a per-
donare, partecipe com'era, a sua volta,
di questa collettività angusta e confla-
grante
Era necessario allora mettersi in salvo
dal troppo vicino, che non è quasi mai
la distanza giusta.
Era tempo di cambiare radicalmente
orizzonte.
Era il momento di partire per un pel-
legrinaggio, l'avventura dell'altrove per
eccellenza.
Andare pellegrini significava acco-
gliere il principio di incertezza, desi-
tuarsi dal recinto del villaggio ma
anche dai confini abituali del pensiero
per aprirsi a un mondo vastissimo.
Affidarsi alla strada e alla provvidenza,
le giornate scandite dalla provvisorietà
dell'alba e del tramonto. Dal dubbio del
quotidiano sopravvivere.
(tratto da HOPE,
trimestrale di cultura
diretto da Catia IorI)
aprile 2006 noidonne40
Il dubbio
Parole che contano
Catia Iori