Numero 4 del 2006
E ora scendiamo in campo noi
Testi pagina 29
noidonne aprile 2006 29
na stanno governando coalizioni
progressiste che, in maniera differen-
te, si oppongono alle politiche neoli-
beriste e stanno cercando una strada
propria per lo sviluppo, ma la mia
sensazione è che la questione femmi-
nile non sia tenuta nella dovuta con-
siderazione, mi riferisco a temi come
quello della salute riproduttiva che è
ben lungi dall'essere affrontato…
Si, hai ragione. Purtroppo le questioni
femminili sono spesso usate come merce
di scambio. Questa è una contraddizio-
ne che dovrà emergere perché è sempre
più evidente che mentre le donne avan-
zano in tutti i contesti i rappresentanti
politici restano indietro e non sono ca-
paci di rilanciare la sfida dei diritti.
A proposito della vittoria di coali-
zioni progressiste, cosa pensi della
recente affermazione di Michelle Ba-
chelet in Cile? Qui in Italia si è dato
grande risalto alla notizia ed è stata
portata all'attenzione di tutti pro-
prio per il fatto che la Bachelet fosse
una donna.
Si, in effetti al di là della sua colloca-
zione politica e della coalizione che la
appoggia, che è più progressista nelle
parole che nei fatti, Michelle è un sim-
bolo per tutte le donne. Tra l'altro è una
persona che ha vissuto la sua militanza
nei movimenti sociali e ha acquistato
credibilità tra la gente proprio per que-
sto.
Se tu dovessi indicare una donna su-
damericana che sia rappresentativa
del continente e della lotta delle
donne per l'affermazione dei dirit-
ti….
Sono tante le donne che hanno speso
il loro impegno per rendere migliore la
vita del loro popolo…in questo momen-
to mi sembra giusto ricordare Blanca
Chancoso una leader indigena ecuado-
riana, appartenente all'etnia kichwa,
una lottatrice sociale molto riconosciu-
ta anche dal suo popolo per l'autorevo-
lezza e forza con cui si è impegnata per
i diritti dei popoli indigeni e delle don-
ne.
Il sistema capitalista e patriarcale ha posto alla base del suo
potere economico il lavoro domestico delle donne
Lavoro da tre anni in un'azienda
della grande distribuzione, che in
questi giorni mi ha fatto frequenta-
re un corso di formazione per
diventare capo di un punto vendi-
ta, dove lavorano moltissime
donne. Il messaggio è stato "i capi
devono essere cattivi!". Vorrei la
sua opinione.
Alessandro Incerti (S Donato Milanese- Milano)
Caro Alessandro,
ma con tante donne perché il corso per diventare capo la
tua azienda lo fa frequentare a un uomo? Per rispondere alla
tua domanda, che non è affatto banale, intendiamoci sul
concetto di "capo cattivo". Il mondo del lavoro è zeppo di
esempi di capi arroganti, prepotenti, che abusano del loro
potere. Nella cultura tutta maschile del management il vero
capo è un "duro", quello che riversa sui diretti collaboratori
tutta la pressione e la tensione che subisce dall'azionista o
dal suo capo diretto. Qualche esempio? Sergio Monorchio,
amministratore delegato della FIAT, convoca riunioni con
manager e consulenti alle 6.30 del mattino, Alberto Vitaloni,
capo della UNICHIPS Italia si inquieta spesso nelle riunioni
insultando i suoi manager e scagliando quello che ha sotto
mano, posacenere compreso. Noto è l'episodio in cui Vittorio
Mincato, presidente di Poste Italiane, nel suo precedente
ruolo di Amministratore Delegato di ENI fece rientrare subito
i manager che erano appena sbarcati in Giappone per un
convegno su gas ed energia, senza avvisarlo.
Partiamo allora dal condividere le caratteristiche di un
"buon capo": un buon capo è esigente, nel senso che non si
accontenta di lavori fatti in modo approssimativo, ma punta
a far crescere le capacità professionali di chi lavora con lui o
con lei. Se chi collabora ha esperienza , non interviene nel
percorso di realizzazione, lo delega, e chiede con chiarezza
cosa vuole e quando. Altrimenti, se chi lavora è alle prime
armi, insegna, supporta, coinvolge, corregge gli eventuali
errori senza ferire chi li ha commessi. Quando deve richiama-
re qualcuno lo fa in privato e senza umiliare la persona.
Sa distinguere l'errore di inesperienza da quello di trascu-
ratezza o di superficialità.
Disse a un giornalista Julio Velasco, quando era allenato-
re della squadra italiana di basket femminile, commentando
un'importante vittoria: "un bravo allenatore sa sempre capi-
re l'atleta che ha di fronte. Per stimolare un'atleta svogliata
posso decidere di lasciarla in panchina in una gara impor-
tante….ma se lo faccio con un'atleta che sta già dando il
massimo so che la distruggo…". Così è anche nel lavoro. Il
buon capo non è un "amicone", è una persona che sa dare
fiducia, conoscenza e costanti stimoli per crescere le persone
che lavorano con lui o con lei. Cerca in sostanza di essere il
capo che vorresti avere come capo.
Cristina Melchiorri
Il capo cattivo