Numero 10 del 2014
Occhio alle (De)Generazioni
Testi pagina 7
5Ottobre 2014
Stavo passeggiando con mia sorella Federica, over 40 anche lei, e a un certo punto mi ha detto ‘Devo scrivere a Jurgen, è da un po’ che non ci sentiamo’. Jurgen è suo amico tedesco, conosciuto quando da ragazzine andavamo al mare in Roma-
gna. In un secondo ho fatto ‘due conti’. Si scrivono da 30 anni! 30 anni! E non si scrivo-
no mail, si scrivono lettere. Sì, mia sorella, a cadenza quasi mensile, prende una penna
e trasferisce su carta e inchiostro i suoi pensieri, le sue vicende. Poi inserisce il foglio
in una busta, la affranca e la imbuca. Forse in quei cassettoni che riportano la scritta
‘Per la città’, ‘Fuori dalla città’, così da rendere più semplice il lavoro di chi smista. Sono
precipitata nel passato. A quelle estate al mare, negli anni Ottanta, quando le spiag-
ge erano super affollate di famiglie medio borghesi e tedeschi. Quando il bel bagnino
da conquistare era un miraggio. Quando le amicizie fatte in spiaggia si traducevano
in gite in pedalò. Quando ci si spalmava di crema alla carota, a quei tempi ritenuta un
must per l’abbronzatura. E quando si ripartiva, dopo i baci gli abbracci e i pianti, e ci si
dava appuntamento all’anno successivo. Ma soprattutto ci si scambiava l’indirizzo di
casa perché poi, durante l’inverno, il rapporto sarebbe continuato in maniera episto-
lare. Mia sorella, a cui in effetti invidio un certo candore, mi ha ricordato tutto questo.
Pensandoci, neppure mi stupisce che lei sia rimasta ancorata a questo rito. Anche a me
da adolescente piaceva. Io stessa andavo a comprare la carta da lettera, la vagliavo tra
tante tipologie, la sceglievo. Perché ce ne erano di mille fogge. Quasi tutte profumate e
colorate. Alcune erano di carta liscia, altre increspata. E quando mi accingevo a scrive-
re, la sera, dopo avere studiato, ero emozionata. Facevo la brutta copia e trasferivo su
bella. Dopo avere letto e riletto e avere raggiunto - speravo - la perfezione. Perché non
potevano esserci errori o correzioni. Sia che si trattasse di amiche che del fidanzatino
che viveva chissà dove. Perché sapevo che quella lettera sarebbe stata conservata insie-
me ad altre. Sapevo, seppure ero giovane, che avrebbe costituito il patrimonio emotivo
della vecchiaia. La lettera, di per sé, era infatti concepita e vissuta come ricordo. Io
contavo i giorni per ricevere la risposta. E spesso passavano settimane perché tutto era
affidato alle Poste, non c’era Internet. Lo so, mi si può dire che è normale che tutto sia
cambiato. Lo so che è così. Però è innegabile che nella velocità si perda il pathos, si con-
sumino i rapporti e la vita. Quante mail ci si possono scrivere, oggi, in un giorno? Anche
10, 12. In 24 ore una relazione può nascere e morire. Sull’onda della compulsività, della
fretta del rivelarsi tutto, dell’assenza di pudore. E invece quanto era bello quel rituale
che lasciava così tanto spazio all’immaginazione! “Risponderà? Non risponderà? Lo
farà subito? Rimanderà?”. Quante domande ci ponevamo. Ma in quella incertezza c’e-
ra il sogno. In quella dilatazione del tempo c’era un incanto che le mail, i post, i twett,
gli sms, i wapp non possono in alcun modo regalarci. Alla fine, io non so neppure se
saprei più scriverla, una lettera. Se saprei usare la penna invece della tastiera, se saprei
dividere in sillabe senza il correttore automatico. Una cosa la so. La comunicazione di
oggi non profuma né di rosa né di lavanda e non conserva le traccia della dita di chi ha
chiuso la busta e di chi ha aperto la busta.
RICORDATE
IL PROFUMO DELLE LETTERE?
di Camilla Ghedini
ancora - è fatta anche di vita privata, di
emozioni, di bisogni di nuova cultura, di
maggiore intimità fra gli umani assediati
dalle macchine. Il lavoro non è tutto, ma
ciò che viene chiamato il sistema insidia
non solo il lavoro, ma anche case, fami-
glie, generazioni.
Il femminismo ha pensato quasi tutto di
un mondo delle donne. Tuttavia non esi-
ste solo il pensiero. D’altra parte, nemme-
no quello è privo di dinamiche (bisogna-
va pur inventare la ruota). Ma quando il
pensiero avverte che è ora di cambiare
costume, allora bisogna fare politica.
Che, probabilmente, se la volessimo fem-
minile, andrebbe esplicitata nei fini, mez-
zi e metodi. I metodi, per esempio, sono
rimasti i soliti anche per noi: o rivoluzione
o riformismo, con la conseguenza di divi-
sioni tra noi per scuole di pensiero, senza
capacità di unire le proposte e alzarne il
contenuto.
Un esempio: la legge sull’aborto è ancora
discussa in molti paesi, ma se ne parla
ovunque senza (o con meno) reticenza.
Le giovani sanno che c’è o ci sarà una
legge; e, comunque, si aspettano prima o
poi la pillola abortiva. Ma il problema non
era l’autodeterminazione?
Oggi ci si divide sul mantenimento del
Senato. Ma davvero nel 2014 possiamo
permetterci il palleggio legislativo con-
tinuo? Si possono citare molti casi, ma
trovo eclatante (e intollerabile) che la
legge sulla violenza sessuale - che non
costava una lira allo Stato perché trasfe-
riva lo stupro dai reati contro la morale
a quelli contro la persona ed era una
norma richiesta da tutte le donne, cioè il
52 % dell’elettorato - sia stata in campo
per 20 anni e 7 legislature. Il fatto è che
le istituzioni non le abbiamo inventate
noi e sarà difficile renderle “di genere”.
Tuttavia, anche nel più bieco riformismo,
tentiamo di farle avanzare mentre sono
in corso necessari cambiamenti: scom-
mettiamo che in un mondo che cambia
con tanta fretta le ragazze possono inte-
ressarsi delle libertà (anche di quella dei
maschi, questa volta a partire da noi per
cambiare i paradigmi).b
MA DAVVERO
CI FANNO FUORI?