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Numero 1 del 1952

Noi Donne VII n.1 / Lotte per il nuovo anno: caro vita riarmo e libertà

Maria Antonietta Macciocchi racconta l'arrivo a Genova dall'Urss della nave dell'amicizia Timiria Zev con aiuti per la popolazione del Polesine dopo l'alluvione, la accolgono: Maria Maddalena Rossi (UDI) Giiuseppe Di Vittorio. Giuliana Nenni, Rosetta Longo, Grazia Verenin (Lega Nazionale delle Cooperative) Santi e Bitossi (CGIL); il piccolo Vittorio, vittima dell'alluvione e la cui famiglia ha perduto tutto, riceve un trenino in dono per la befana.
La poesia che Sibilla Alleramo dedica a se stessa bambina "la piccina ch'io ero mi guarda'.
Novella di Renata Ordavo "La fedele"
Novella di Licia Ashlej 'Ritorno dal fiume' (puntata)
Novella di Silvana Cichi 'Il primo viaggio'.
Quarto anniversario della repubblica popolare Rumena: Anna Chiriza,deputata e il suo grande impegno per i bambini di Sibio.
Editoria per i ragazzi, articolo di Luciana Viviani su una proposta di leggedella Democrazia Cristiana che definisce essere contro i piccoli editori democratici 'Una legge con il trucco'.
Giuliana Dal Pozzo firma l'inchiesta' "La tredicesima' sulle aspettative e l'utilizzo da parte delle donne.
Cineromanzo "Achtung banditi!" di Carlo Lizzani (fumetti) con Gina Lollobrigida e Giuliano Montaldo.
Rubrica di cucina:'il concorso che fa gola', il medico in casa.
Le diffonditrici: Maria Sette e Maria Barsotti.
Lucia Solazzo racconta come 'nasce una bambola': artigianato e creativiità.
Le lettrici scrivono a Renata Viganò: le lettrici scrivono alla Redazione.
Moda:capotti e consigli per l'abbigliamento.
Ai bambini calabresi in partenza per Roma con il viaggio organizzato dal'UDI per le vacanze di natale la polizia impendisce la partenza, proteste  e intervento della Procura della Repubblica per consentire la partenza.
Rubriche di cucina,  e critica cinematografica.
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Foto: Noi Donne VII n.1 / Lotte per il nuovo anno: caro vita riarmo e libertà
PAGINA 4
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Testi pagina 4

È Arrivata dall’ Urss la Nave dell’amicizia
L’arrivo del “Timiriazev”, la nave che dall’Urss ha tra­sportato in Italia i doni dei Sindacati, delle Coopera­tive e delle Donne Antifasciste per gli alluvionati, è stato il simbolo della fraterna amicizia e della so­lidarietà dell’Unione Sovietica verso il popolo italiano.
La nave è giunta calma, tran­quilla, silenziosa, domenica mattina nel porto di Genova. Sulla poppa sventolava una bandiera rossa e, vicino, quella tricolore; lungo i fian­chi della nave e sui salvagenti c’era scritto in bianco: Timiriazev, Odessa. Noi stavamo in gruppo, con tutte le bandiere dei sindacati e delle orga­nizzazioni democratiche, fermi sui molo, e avevamo gli occhi spalan­cati per afferrare subito tutti i par­ticolari e, nel cuore, una grande com­mozione sincera che non si esprime­va nè con parole, nè con gesti. Su­bito, sul ponte della nave sono com parsi il capitano, una donna, un uo­mo molto giovane, e un altro uomo dall’aspetto grave, che si sono schie­rati, l’uno a fianco all’altro, come a presentarsi ufficialmente a noi, e co sì silenziosi e così dall’alto spiravano un'aria di forza, di sicurezza e di se­renità. Allora l’entusiasmo ha tra volto la commozione -e i portuali, le donne, i bambini del Polesine, le de* legazioni giunte da tutta Italia hanno preso a sventolare le bandiere, ad applaudire, a gridare « viva Stalin », a gettare fiori verso la nave, a man­dare saluti con le mani e con i sorrisi e con gli occhi. I marinai sovietici compivano svelti tutte le manovre di approdo ma non si stancavano di guardarci e, ogni tanto, pur lavoran­do, ci facevano cenni di amicizia. Erano quasi tutti giovani, biondi, con gli occhi chiari, con belle divise blu con i bottoni d’oro e il bavero che si apriva in una larga scollatura, dal­la quale si intravvedeva la maglia caratteristica dei marinai dell’Unione sovietica, a righe orizzontali blu e bianche. Uno di loro mi ha raccon­tato che, durante la guerra, quando i reparti di marinai erano costretti a combattere in fanteria, facevano una unica richiesta; conservare la maglia sotto la divisa e ogni volta che colpivano il nemico si allargavano sul petto la giacca militare a far ve­dere le righe bianche e bleu. e grida­vano: «Siamo marinai! ».
Quando i marinai hanno finito le manovre e la dogana ha ultimato la visita di controllo, la nave sovietica ha ospitato le delegazioni. Tutti ci affrettavamo per la scaletta e ci pi­giavamo forte perchè in tutti era que- s’ansia di giungere presto, più presto degli altri a stringere la mano dei sovietici, vedere la nave, guardare tutto da vicino: una nave che arriva dal Paese del socialismo, dal mondo nuovo al quale gli uomini aspirano, e per raggiungerlo, anche loro, lottano e muoiono. Le donne del Polesine, grandi e forti contadine, le mondine emiliane, le operaie torinesi piange vano senza vergogna, con le lacrime che bagnavano le facce che ridevano di gioia, e dicevano ai marinai « Tovàrich tovàrich (compagno) an­ch’io », facevano il giro «per an­dare a stringere la mano di tutti, così che ogni uomo dell’equipaggio si trovava circondato da mani aperte, ora rudi, ora callose, ora gentili che si tendevano a prendere la sua, a stringerla amorosamente.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Borzenko, il capitano della nave, dopo la cerimonia, ci ha invitati nella sala da pranzo del Timiriazev, tutta rivestita di legno, con le rifiniture di lucido ottone, e larghe, comode sedie girevoli, e lunghi divani di vel­luto. Egli ci ha sorriso quando ci ha visto seduti, si è levato in piedi cor tutta l’altezza della sua bella ed ele­gante figura, ha poggiato sul tavolo le sue mani scure, e ci ha detto: « Sono felice, amici; considero un grande onore l’aver guidato per ri mare la nave che portava zucchero, grano, latte, trattori ai lavoratori ita­liani. Questo è il sentimento del po­polo sovietico verso l’Italia: non na­vi cariche di armi, di cannoni, di mezzi di distruzioni, ma aiuti agli italiani per ricostruire il paese, per essere
(per la pace!) » ha concluso sollevan do le braccia in un gesto di forza e di consapevolezza; e gli occhi grigi brillavano di gioia.
A poppa ed a prua della nave, al­lineati, si trovavano i grandi cassoni contenenti i doni, e stampigliate sul legno vi erano scritte assai semplici- < Il Comitato Antifascista delle Don­ne Sovietiche alle Donne Italiane»; poi uno alzava gli occhi e, come a rivestire del senso più vero e pro­fondo quelle parole, vedeva la ban­diera rossa che sventolava alta sul ponte, simbolo universale di fratel­lanza tra gli uomini.
Nel pomeriggio, dopo il pranzo offerto dai portuali genovesi, il P°" polo di Genova attendeva al Palazzo Ducale di incontrarsi con la dele­gazione sovietica.
Nella grande sala la ressa era enorme; non si vedevano più i volti, ma solo un agitarsi di braccia e di mani. Il grido più ripetuto era lo evviva a Stalin, pieno di ammirazio- ne e di amicizia e, mentre sentivo queste donne, questi uomini e questi bimbi gridare così, mi ritornavano alla mente spettacoli analoghi che avevo visto a Teheran, nella SiriaLa nave è giunta calma, tran­quilla, silenziosa, domenica mattina nel porto di Genova. Sulla poppa sventolava una bandiera rossa e, vicino, quella tricolore; lungo i fian­chi della nave e sui salvagenti c’era scritto in bianco: Timiriazev, Odessa. Noi stavamo in gruppo, con tutte le bandiere dei sindacati e delle orga­nizzazioni democratiche, fermi sui molo, e avevamo gli occhi spalan­cati per afferrare subito tutti i par­ticolari e, nel cuore, una grande com­mozione sincera che non si esprime­va nè con parole, nè con gesti. Su­bito, sul ponte della nave sono com parsi il capitano, una donna, un uo­mo molto giovane, e un altro uomo dall’aspetto grave, che si sono schie­rati, l’uno a fianco all’altro, come a presentarsi ufficialmente a noi, e co sì silenziosi e così dall’alto spiravano un'aria di forza, di sicurezza e di se­renità. Allora l’entusiasmo ha tra volto la commozione -e i portuali, le donne, i bambini del Polesine, le de* legazioni giunte da tutta Italia hanno preso a sventolare le bandiere, ad applaudire, a gridare « viva Stalin », a gettare fiori verso la nave, a man­dare saluti con le mani e con i sorrisi e con gli occhi. I marinai sovietici compivano svelti tutte le manovre di approdo ma non si stancavano di guardarci e, ogni tanto, pur lavoran­do, ci facevano cenni di amicizia. Erano quasi tutti giovani, biondi, con gli occhi chiari, con belle divise blu con i bottoni d’oro e il bavero che si apriva in una larga scollatura, dal­la quale si intravvedeva la maglia caratteristica dei marinai dell’Unione sovietica, a righe orizzontali blu e bianche. Uno di loro mi ha raccon­tato che, durante la guerra, quando i reparti di marinai erano costretti a combattere in fanteria, facevano una unica richiesta; conservare la maglia sotto la divisa e ogni volta che colpivano il nemico si allargavano sul petto la giacca militare a far ve­dere le righe bianche e bleu. e grida­vano: «Siamo marinai! ».
Quando i marinai hanno finito le manovre e la dogana ha ultimato la visita di controllo, la nave sovietica ha ospitato le delegazioni. Tutti ci affrettavamo per la scaletta e ci pi­giavamo forte perchè in tutti era que- s’ansia di giungere presto, più presto degli altri a stringere la mano dei sovietici, vedere la nave, guardare tutto da vicino: una nave che arriva dal Paese del socialismo, dal mondo nuovo al quale gli uomini aspirano, e per raggiungerlo, anche loro, lottano e muoiono. Le donne del Polesine, grandi e forti contadine, le mondine emiliane, le operaie torinesi piange vano senza vergogna, con le lacrime che bagnavano le facce che ridevano di gioia, e dicevano ai marinai « Tovàrich tovàrich (compagno) an­ch’io », facevano il giro «per an­dare a stringere la mano di tutti, così che ogni uomo dell’equipaggio si trovava circondato da mani aperte, ora rudi, ora callose, ora gentili che si tendevano a prendere la sua, a stringerla amorosamente.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Borzenko, il capitano della nave, dopo la cerimonia, ci ha invitati nella sala da pranzo del Timiriazev, tutta rivestita di legno, con le rifiniture di lucido ottone, e larghe, comode sedie girevoli, e lunghi divani di vel­luto. Egli ci ha sorriso quando ci ha visto seduti, si è levato in piedi cor tutta l’altezza della sua bella ed ele­gante figura, ha poggiato sul tavolo le sue mani scure, e ci ha detto: « Sono felice, amici; considero un grande onore l’aver guidato per ri mare la nave che portava zucchero, grano, latte, trattori ai lavoratori ita­liani. Questo è il sentimento del po­polo sovietico verso l’Italia: non na­vi cariche di armi, di cannoni, di mezzi di distruzioni, ma aiuti agli italiani per ricostruire il paese, per essere
(per la pace!) » ha concluso sollevan do le braccia in un gesto di forza e di consapevolezza; e gli occhi grigi brillavano di gioia.
A poppa ed a prua della nave, al­lineati, si trovavano i grandi cassoni contenenti i doni, e stampigliate sul legno vi erano scritte assai semplici- < Il Comitato Antifascista delle Don­ne Sovietiche alle Donne Italiane»; poi uno alzava gli occhi e, come a rivestire del senso più vero e pro­fondo quelle parole, vedeva la ban­diera rossa che sventolava alta sul ponte, simbolo universale di fratel­lanza tra gli uomini.
Nel pomeriggio, dopo il pranzo offerto dai portuali genovesi, il P°" polo di Genova attendeva al Palazzo Ducale di incontrarsi con la dele­gazione sovietica.
Nella grande sala la ressa era enorme; non si vedevano più i volti, ma solo un agitarsi di braccia e di mani. Il grido più ripetuto era lo evviva a Stalin, pieno di ammirazio- ne e di amicizia e, mentre sentivo queste donne, questi uomini e questi bimbi gridare così, mi ritornavano alla mente spettacoli analoghi che avevo visto a Teheran, nella SiriaLa nave è giunta calma, tran­quilla, silenziosa, domenica mattina nel porto di Genova. Sulla poppa sventolava una bandiera rossa e, vicino, quella tricolore; lungo i fian­chi della nave e sui salvagenti c’era scritto in bianco: Timiriazev, Odessa. Noi stavamo in gruppo, con tutte le bandiere dei sindacati e delle orga­nizzazioni democratiche, fermi sui molo, e avevamo gli occhi spalan­cati per afferrare subito tutti i par­ticolari e, nel cuore, una grande com­mozione sincera che non si esprime­va nè con parole, nè con gesti. Su­bito, sul ponte della nave sono com parsi il capitano, una donna, un uo­mo molto giovane, e un altro uomo dall’aspetto grave, che si sono schie­rati, l’uno a fianco all’altro, come a presentarsi ufficialmente a noi, e co sì silenziosi e così dall’alto spiravano un'aria di forza, di sicurezza e di se­renità. Allora l’entusiasmo ha tra volto la commozione -e i portuali, le donne, i bambini del Polesine, le de* legazioni giunte da tutta Italia hanno preso a sventolare le bandiere, ad applaudire, a gridare « viva Stalin », a gettare fiori verso la nave, a man­dare saluti con le mani e con i sorrisi e con gli occhi. I marinai sovietici compivano svelti tutte le manovre di approdo ma non si stancavano di guardarci e, ogni tanto, pur lavoran­do, ci facevano cenni di amicizia. Erano quasi tutti giovani, biondi, con gli occhi chiari, con belle divise blu con i bottoni d’oro e il bavero che si apriva in una larga scollatura, dal­la quale si intravvedeva la maglia caratteristica dei marinai dell’Unione sovietica, a righe orizzontali blu e bianche. Uno di loro mi ha raccon­tato che, durante la guerra, quando i reparti di marinai erano costretti a combattere in fanteria, facevano una unica richiesta; conservare la maglia sotto la divisa e ogni volta che colpivano il nemico si allargavano sul petto la giacca militare a far ve­dere le righe bianche e bleu. e grida­vano: «Siamo marinai! ».
Quando i marinai hanno finito le manovre e la dogana ha ultimato la visita di controllo, la nave sovietica ha ospitato le delegazioni. Tutti ci affrettavamo per la scaletta e ci pi­giavamo forte perchè in tutti era que- s’ansia di giungere presto, più presto degli altri a stringere la mano dei sovietici, vedere la nave, guardare tutto da vicino: una nave che arriva dal Paese del socialismo, dal mondo nuovo al quale gli uomini aspirano, e per raggiungerlo, anche loro, lottano e muoiono. Le donne del Polesine, grandi e forti contadine, le mondine emiliane, le operaie torinesi piange vano senza vergogna, con le lacrime che bagnavano le facce che ridevano di gioia, e dicevano ai marinai « Tovàrich tovàrich (compagno) an­ch’io », facevano il giro «per an­dare a stringere la mano di tutti, così che ogni uomo dell’equipaggio si trovava circondato da mani aperte, ora rudi, ora callose, ora gentili che si tendevano a prendere la sua, a stringerla amorosamente.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Borzenko, il capitano della nave, dopo la cerimonia, ci ha invitati nella sala da pranzo del Timiriazev, tutta rivestita di legno, con le rifiniture di lucido ottone, e larghe, comode sedie girevoli, e lunghi divani di vel­luto. Egli ci ha sorriso quando ci ha visto seduti, si è levato in piedi cor tutta l’altezza della sua bella ed ele­gante figura, ha poggiato sul tavolo le sue mani scure, e ci ha detto: « Sono felice, amici; considero un grande onore l’aver guidato per ri mare la nave che portava zucchero, grano, latte, trattori ai lavoratori ita­liani. Questo è il sentimento del po­polo sovietico verso l’Italia: non na­vi cariche di armi, di cannoni, di mezzi di distruzioni, ma aiuti agli italiani per ricostruire il paese, per essere
(per la pace!) » ha concluso sollevan do le braccia in un gesto di forza e di consapevolezza; e gli occhi grigi brillavano di gioia.
A poppa ed a prua della nave, al­lineati, si trovavano i grandi cassoni contenenti i doni, e stampigliate sul legno vi erano scritte assai semplici- < Il Comitato Antifascista delle Don­ne Sovietiche alle Donne Italiane»; poi uno alzava gli occhi e, come a rivestire del senso più vero e pro­fondo quelle parole, vedeva la ban­diera rossa che sventolava alta sul ponte, simbolo universale di fratel­lanza tra gli uomini.
Nel pomeriggio, dopo il pranzo offerto dai portuali genovesi, il P°" polo di Genova attendeva al Palazzo Ducale di incontrarsi con la dele­gazione sovietica.

La nave è giunta calma, tran­quilla, silenziosa, domenica mattina nel porto di Genova. Sulla poppa sventolava una bandiera rossa e, vicino, quella tricolore; lungo i fian­chi della nave e sui salvagenti c’era scritto in bianco: Timiriazev, Odessa. Noi stavamo in gruppo, con tutte le bandiere dei sindacati e delle orga­nizzazioni democratiche, fermi sul molo, e avevamo gli occhi spalan­cati per afferrare subito tutti i par­ticolari e, nel cuore, una grande com­mozione sincera che non si esprime­va né con parole, né con gesti. Su­bito, sul ponte della nave sono comparsi il capitano, una donna, un uo­mo molto giovane, e un altro uomo dall’aspetto grave, che si sono schie­rati, l’uno a fianco all’altro, come a presentarsi ufficialmente a noi, e co sì silenziosi e così dall’alto spiravano un'aria di forza, di sicurezza e di se­renità. Allora l’entusiasmo ha tra volto la commozione e i portuali, le donne, i bambini del Polesine, le delegazioni giunte da tutta Italia hanno preso a sventolare le bandiere, ad applaudire, a gridare «viva Stalin», a gettare fiori verso la nave, a man­dare saluti con le mani e con i sorrisi e con gli occhi. I marinai sovietici compivano svelti tutte le manovre di approdo ma non si stancavano di guardarci e, ogni tanto, pur lavoran­do, ci facevano cenni di amicizia. Erano quasi tutti giovani, biondi, con gli occhi chiari, con belle divise blu con i bottoni d’oro e il bavero che si apriva in una larga scollatura, dal­la quale si intravvedeva la maglia caratteristica dei marinai dell’Unione sovietica, a righe orizzontali blu e bianche. Uno di loro mi ha raccon­tato che, durante la guerra, quando i reparti di marinai erano costretti a combattere in fanteria, facevano una unica richiesta; conservare la maglia sotto la divisa e ogni volta che colpivano il nemico si allargavano sul petto la giacca militare a far ve­dere le righe bianche e bleu. e grida­vano: «Siamo marinai!».
Quando i marinai hanno finito le manovre e la dogana ha ultimato la visita di controllo, la nave sovietica ha ospitato le delegazioni. Tutti ci affrettavamo per la scaletta e ci pi­giavamo forte perché in tutti era ques’ansia di giungere presto, più presto degli altri a stringere la mano dei sovietici, vedere la nave, guardare tutto da vicino: una nave che arriva dal Paese del socialismo, dal mondo nuovo al quale gli uomini aspirano, e per raggiungerlo, anche loro, lottano e muoiono. Le donne del Polesine, grandi e forti contadine, le mondine emiliane, le operaie torinesi piange vano senza vergogna, con le lacrime che bagnavano le facce che ridevano di gioia, e dicevano ai marinai «Tovàrich tovàrich (compagno) an­ch’io», facevano il giro «per an­dare a stringere la mano di tutti, così che ogni uomo dell’equipaggio si trovava circondato da mani aperte, ora rudi, ora callose, ora gentili che si tendevano a prendere la sua, a stringerla amorosamente.
sovietici, vedere la nave, guardare tutto da vicino: una nave che arriva dal Paese del socialismo, dal mondo nuovo al quale gli uomini aspirano, e per raggiungerlo, anche loro, lottano e muoiono. Le donne del Polesine, grandi e forti contadine, le mondine emiliane, le operaie torinesi piange vano senza vergogna, con le lacrime che bagnavano le facce che ridevano di gioia, e dicevano ai marinai « Tovàrich tovàrich (compagno) an­ch’io », facevano il giro «per an­dare a stringere la mano di tutti, così che ogni uomo dell’equipaggio si trovava circondato da mani aperte, ora rudi, ora callose, ora gentili che si tendevano a prendere la sua, a stringerla amorosamente.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
sovietici, vedere la nave, guardare tutto da vicino: una nave che arriva dal Paese del socialismo, dal mondo nuovo al quale gli uomini aspirano, e per raggiungerlo, anche loro, lottano e muoiono. Le donne del Polesine, grandi e forti contadine, le mondine emiliane, le operaie torinesi piange vano senza vergogna, con le lacrime che bagnavano le facce che ridevano di gioia, e dicevano ai marinai « Tovàrich tovàrich (compagno) an­ch’io », facevano il giro «per an­dare a stringere la mano di tutti, così che ogni uomo dell’equipaggio si trovava circondato da mani aperte, ora rudi, ora callose, ora gentili che si tendevano a prendere la sua, a stringerla amorosamente.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la
ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomi- ni e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. E’ stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: « Oh, piccola mia, oh, piccola mia... ». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, nè lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di^^ una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata da< pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dett- e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Un tavolinetto piccolo è stato messo sul ponte della nave e lì da­vanti è avvenuta la consegna dei doni portati dai Sindacati sovietici, dal Comitato Antifascista delle don­ne sovietiche, dalle Cooperative so­vietiche: 20 trattori, 40 aratri, 40 erpici, 10.000 quintali di grano da semina, 40.000 quintali di farina, 2.500 quintali di zucchero raffina­to, 100.000 scatole di latte conden­sato. Poche parole commosse e poi la firma dei tre dirigenti italiani della Confederazione Generale Ita­liana del Lavoro, dell’Unione Don­ne Italiane e della Lega delle Coo­perative a tre lunghi fogli scritti a macchina in cui veniva esposta la ragione del dono ed elencati i do­ni stessi con uno stile diretto e pre­ciso. Il sole è venuto fuori, pro­prio nel momento in cui gli uomini e le donne, dai visi gravi e com­mossi, compivano la cerimonia, sen­za un gesto superfluo, senza una parola di troppo, sul ponte della nave. È stato allora che una bim­ba si è fatta avanti, verso la dot­toressa Lebedeva, trotterellando con il suo grande fascio di fiori rossi, tutta rossa di commozione; Lebede­va ha capito chi era la piccola bim­ba e, senza bisogno che alcuno nul­la le dicesse, le è corsa incontro, l’ha stretta forte tra le braccia ed ha cominciato a dire nella sua dol­ce e bella lingua: «Oh, piccola mia, oh, piccola mia...». I suoi oc­chi erano pieni di lagrime, né lei aveva vergogna di mostrarlo e a noi sembrava straordinario che una donna così grande, così alta e forte potesse piangere quasi come una bambina. E abbiamo capito che la sua commozione non era quella di una donna soltanto, ma di tutte le donne sovietiche che dal giorno del­l’alluvione non avevano sostato un minuto a parlare del dolore e delia sofferenza dei nostri bimbi, che si sono messe al lavoro tutte a racco­gliere il latte, il grano, lo zucchero per i nostri figli, ed una di loro era venuta da Odessa, fino a Genova, aveva attraversato il grande mare per giorni e giorni, con questo gran­de carico d’amore, accompagnata dal pensiero di tutte le altre, e l’abbrac­cio forte alla piccola bimba d’Italia era la conclusione di tante cose dette e pensate, di tante cose avvenute in nostro nome e per amore nostro la, lontano da noi, nel Paese del so­cialismo.
Borzenko, il capitano della nave, dopo la cerimonia, ci ha invitati nella sala da pranzo del Timiriazev, tutta rivestita di legno, con le rifiniture di lucido ottone, e larghe, comode sedie girevoli, e lunghi divani di vel­luto. Egli ci ha sorriso quando ci ha visto seduti, si è levato in piedi con tutta l’altezza della sua bella ed ele­gante figura, ha poggiato sul tavolo le sue mani scure, e ci ha detto: «Sono felice, amici; considero un grande onore l’aver guidato per il mare la nave che portava zucchero, grano, latte, trattori ai lavoratori ita­liani. Questo è il sentimento del po­polo sovietico verso l’Italia: non na­vi cariche di armi, di cannoni, di mezzi di distruzioni, ma aiuti agli italiani per ricostruire il paese, per essere un popolo felice. Za Mir! (per la pace!)» ha concluso sollevando le braccia in un gesto di forza e di consapevolezza; e gli occhi grigi brillavano di gioia.
A poppa ed a prua della nave, al­lineati, si trovavano i grandi cassoni contenenti i doni, e stampigliate sul legno vi erano scritte assai semplici: «Il Comitato Antifascista delle Don­ne Sovietiche alle Donne Italiane»; poi uno alzava gli occhi e, come a rivestire del senso più vero e pro­fondo quelle parole, vedeva la ban­diera rossa che sventolava alta sul ponte, simbolo universale di fratellanza tra gli uomini. Nel pomeriggio, dopo il pranzo offerto dai portuali genovesi, il P°" polo di Genova attendeva al Palazzo Ducale di incontrarsi con la dele­gazione sovietica.
Nel pomeriggio, dopo il pranzo offerto dai portuali genovesi, il popolo di Genova attendeva al Palazzo Ducale di incontrarsi con la delegazione sovietica. Nel pomeriggio, dopo il pranzo offerto dai portuali genovesi, il P°" polo di Genova attendeva al Palazzo Ducale di incontrarsi con la dele­gazione sovietica.
Nella grande sala la ressa era enorme; non si vedevano più i volti, ma solo un agitarsi di braccia e di mani. Il grido più ripetuto era lo evviva a Stalin, pieno di ammirazione e di amicizia e, mentre sentivo queste donne, questi uomini e questi bimbi gridare così, mi ritornavano alla mente spettacoli analoghi che avevo visto a Teheran, nella Siria, nel Libano. Pensavo che altrettanto avviene in Corea, in Egitto, in India,
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