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Numero 10 del 2016

Quelle che il potere. Donne ai vertici


Foto: Quelle che il potere. Donne ai vertici
PAGINA 29

Testi pagina 29

27Ottobre 2016
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Quando è nato il
mio primo figlio mi
dicevano che era un
peccato che fosse
così bianco
bacinella di plastica. Gli
indigeni mi dicevano che
io ero matta a buttare tut-
ta quell’acqua per lavarmi
ma io avevo a disposizione
una macchina per traspor-
tare l’acqua e quello era
il mio lusso. È stata un’e-
sperienza molto bella, ho
vissuto la vita quotidiana
della comunità, ho capito
a fondo quel mondo. Dato
che mio marito era medico entravo in contatto con tutte le
famiglie. Lavoravamo molto anche con le donne e con le
parteras (levatrici) a cui ho visto fare delle cose incredibili.
Sono capaci di muovere un bambino sistemato male nella
pancia della mamma ricorrendo a delle fasce che passa-
no sul corpo delle donne. Facemmo in modo che la divi-
sione di salute del Pichincha (provincia ecuadoriana, ndr)
accettasse le parteras nel sistema di salute pubblico. Fu
una grande vittoria perché a quell’epoca la medicina indi-
gena era considerata stregoneria. Da questa esperienza è
nato il libro De lo magico a lo natural, la medicina indigena
en Pesillo.
Cosa ha significato immergersi in un mondo
così sconosciuto?
È stata un’esperienza in cui ho messo in discussione mol-
te delle mie convinzioni. E ho avuto la possibilità di capire
il modo in cui gli indigeni vedono il mondo. C’è stato un
episodio che è stato determinante in questo senso. Sono
laureata in teologia e mi ero offerta di aiutare i salesiani
con la catechesi. In uno dei corsi di preparazione al bat-
tesimo avevo parlato del Diluvio universale e dell’arcoba-
leno come segno della fine del diluvio e dell’alleanza tra
uomo e dio. Alla fine si presentò un vecchietto con il suo
poncho. Mi diede la mano alla maniera degli indigeni, na-
scondendola sotto il poncho - questo è retaggio del pas-
sato coloniale quando gli indigeni non potevano neanche
toccare i bianchi - e mi disse ”sa doctorcita succede che
il kuichik (l’arcobaleno) per noi è uno spirito maligno che
mette incinta le bambine”. Entrai in crisi, rinunciai all’in-
carico e capii che dovevo mettermi a studiare. Era assur-
do insegnare la nostra religione con le nostre categorie.
E quindi ho studiato come era organizzato il mondo dei
quichua.
Poi sei arrivata in foresta?
La selva è la mia vita. Nel momento in cui ho visto quel
mare di verde ho capito che quello era il luogo in cui do-
vevo nascere. I ritmi, il clima, il modo di vivere in foresta
sono quelli più consoni alla mia personalità. Ho comin-
ciato a lavorare alla CONFENAIE (Confederación de Na-
cionalidades Indígenas de la Amazonía Ecuatoriana), mi
occupavo del giornale, e ho conosciuto Carlos Viteri, un
antropologo quichua di Sarayacu. È stato il mio compagno
per tanti anni e abbiamo avuto due figli. Con lui sono en-
trata a far parte di una famiglia indigena
e ho vissuto in una comunità in selva
condividendo la vita e le battaglie
di quelle persone. I miei figli sono
nati lì e sono cresciuti in questa
comunità, io me li legavo sulla
schiena come le donne del po-
sto e andavo a lavorare nella
chagra (fattoria), preparavo la
chicha (bevanda), li mettevo a
dormire sulle amache mentre lavo-
ravo. In quel luogo una delle persone
chiave è stata Rebeca, la madre di Carlos,
che mi ha accolto e insegnato tutto quello che so sulla sel-
va. È stato il mio tramite e la persona che, appena arrivata
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