Numero 3 del 2009
Una festa nella crisi: lotta marzo
Testi pagina 7
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sto saremo sole, perché nelle crisi, se le
donne stanno a casa, c'è qualche posto
in più per gli uomini, che, perfino se im-
migrati, sono lavoratori migliori e alme-
no non partoriscono. D'altra parte le
donne desiderano fare figli e hanno ri-
mediato alle carenze demografiche an-
che senza aver ottenuto né dallo stato
né dalle regioni i servizi necessari alla
loro libertà e senza quel sostegno "alla
famiglia" che tenga conto degli interessi
femminili (defiscalizzare 300 euro non
vale come istituire asili nido o day ho-
spital). Gli uomini, intesi come i part-
ners della coppia, aiutano più spesso
che per il passato, ma come membri so-
ciali di partiti e sindacati restano inca-
paci di farsi carico dei diritti lavorativi
delle proprie compagne di vita. Le qua-
li, proprio nei periodi di maggior diffi-
coltà per l'economia, sarebbero qualco-
sa di più di un ammortizzatore sociale
vivente. Negli anni '70 - sempre del se-
colo scorso - donne dei sindacati tede-
schi proposero di acquistare ore di lavo-
ro per comperarsi una tregua "per sé":
furono derise e non se ne fece nulla.
Obama ha presentato la figura respon-
sabile del lavoratore che rinuncia a
qualche ora per salvare il posto di un
collega, come sollecitazione per i tempi
di vacche magre. Ovunque i lavoratori
rischiano di perdere diritti e le organiz-
zazioni del lavoro non trovano nessuna
bacchetta magica. Anche perché non è
stata valorizzato l'apporto della "diffe-
renza": partendo dall'esperienza delle
donne, meno incastrate nei meccanismi
rigidi e maestre di flessibilità, non era
impossibile innovare, per esempio, ap-
profittando dell'elettronica per adottare,
almeno nelle imprese grandi, la mobili-
tà degli orari. Il "part-time", che è stato
un lavoro non qualificato - e perciò de-
stinati alle donne - poteva essere una
scelta di valore, se più equamente confi-
gurato. Se anche in Germania nella di-
rigenza delle strutture pubbliche e pri-
vate e nei consigli di amministrazione le
donne sono poche nonostante l'alta pro-
fessionalità, è perché si sa che anche la
più omologata di loro, una che dice di
essere "un" presidente, non ignora che
cosa significa avere un bebé da allatta-
re quando si lavora e non sempre si op-
porrebbe a investire denaro in un nido
nella struttura. Con l'urgenza di tampo-
nare i guai della crisi illustri economisti
fingono di scoprire la necessità di com-
prendere la riproduzione nel concetto di
Pil: le economiste da decenni dicono che
i prodotti di una nazione non sarebbero
neppure possibili senza che qualcuno
producesse i beni della sopravvivenza.
Si perderà anche questa occasione, co-
me si è perduta l'opportunità di realiz-
zare maggiori profitti estendendo l'occu-
pazione femminile?
Nelle crisi i lavoratori hanno, tutti,
molto da perdere. Le lavoratrici di più.
Occorre pensarci per tempo: l'accetta-
zione di un "neutro" che ha assorbito la
"differenza" ha già reso le donne o poli-
ticamente arrabbiate o indifferenti. Chi
non si allarma (sindaci - anche candi-
dati - amministratori, sindacalisti, poli-
tici, futuri deputati/-e europei, soprat-
tutto maschi, ma anche donne e le no-
stre organizzazioni femminil-femmini-
ste) ci pensino: il calo delle votanti o,
dopo, le proteste di piazza sono pro-
spettive serie.
“...se c'è una critica da rivolgere a gran parte del
femminismo... è quella di non aver percepito che la propria
novità si inseriva nel fluire della storia delle donne che
praticamente da sempre lottano per la propria libertà”
Pullulano ovunque corsi di autodifesa per le donne. L'obiettivo è presto detto: superare ogni ragiona-
mento giustizialista, far passare in termini culturali un'immagine non vittimista e bisognosa di inter-
venti paternalisti.
Ho tra le mani un opuscolo di autodifesa che combinando psicologia e biologia dell'aggressività pro-
pone un collage armonico di poche tecniche, sicure ed efficaci ma apprese alla perfezione. La risposta
della donna attaccata deve essere fulminea, esplosiva, istintuale. Fondamentale capire che il ruolo di
vittima e quello di aggressore sono complementari. Che l'aggressore si manifesta solo in presenza di una vittima adeguata e conve-
niente. Che il mito della donna debole e vulnerabile è un prodotto culturale, non un fatto naturale. L'inferiorità fisica è un mito col-
tivato dagli uomini per legittimare la discriminazione tra i sessi e del quale non poche donne si sono compiaciute per trarne indul-
genza sociale e protezione gratuita. La negazione da parte delle donne delle propri potenzialità aggressive le condanna spesso rifu-
giarsi nel vittimismo e a rinchiudersi nella paura più paralizzante e in un rassegnato torpore. E' ovvio che posto in questi termini c'è
anche un fine didattico, se vogliamo, e cioè acquisire la consapevolezza di quei confini, non solo fisici ma anche psicologici, valicati
i quali un intruso può considerarsi implicitamente autorizzato ad accampare delle pretese. Io credo che corsi di autodifesa femmini-
le di questi tempi siano davvero utili. Epperò il fatto che si debba arrivare a tanto impone una riflessione. Che idea coltiva della don-
na la nostra società? Se siamo costrette a usare le arti marziali vuol dire che in un'epoca arida e banale la nostra anima sta sfiorendo.
Alla faccia del taoismo che insegna a noi tutte che in ogni donna riposa la dea che ciascuna crea in se stessa. E pensare che una ci-
viltà è tale se rispetta antropologicamente la donna, fonte della vita e ne protegge la specie. Forse sarebbe meglio ripartire da questo
elementare e ancestrale mistero per capire che quando un uomo annienta anche senza stupro e violenza fisica la magia femminile,
violenta il mondo intero. Uccide il senso stesso della vita. E inaridisce l'anima di noi tutti, lui compreso.
Autodifesa o rivoluzione culturale?