Numero 3 del 2015
8 Marzo al tempo delle crisi
Testi pagina 7
5Marzo 2015
VENT’ANNI FA
ANDAVAMO
A PECHINO
vano scritto i documenti che le mini-
stre avrebbero letto indicavano già la
linea di tendenza. Susanna Agnelli si
staccò dal testo scritto: “Vorrei aggiun-
gere che queste analisi non possono
essere complete senza un’adeguata
riflessione sull’impatto di genere”, che
evidentemente il governo non sapeva
nemmeno che cosa fosse.
Era presente anche Betty Friedan: La
mistica della femminilità del 1961 era
già datata e Betty se ne rendeva conto:
“oggi le ragazze tendono a dire: non
sono una femminista, però... riven-
dicano i diritto a una professionalità
di alto livello, che è quello per cui ha
lottato per anni il movimento femmi-
nista”. Bisognava, dunque, che tutte
andassero oltre, verso “una nuova vi-
sione” perché dall’economia arrivava il
“contrattacco” alle conquiste ottenute:
“affinché la nostra lotta abbia succes-
so, è essenziale superare gli obiettivi
immediati, concentrandoci su quelli a
lungo termine”. Sono ancora le due vie
da percorrere: nuove pratiche e nuove
idee. Le idee forse non sono mancate
nelle nostre “scuole di pensiero”; ma si
fa presto a dire che i governi non man-
tengono la parola, se non si sa come
gestire le proprie rivendicazioni: per ri-
formare il Pil, ad esempio, le Cavarero
e le Muraro dovevano associarsi, che
so?, ad Antonella Picchio. Così anche
da noi sono uscite molte parole, che
- nemmeno ce ne accorgiamo - sono
diventate vecchie. La sinistra non ci ha
aiutato perché anche lei ha solo parole
invecchiate. Anche Papa Francesco si
scontra con un vecchio cattolicesimo
ormai privo di senso. È il mondo che
cambia, forse non così rapidamente
come sembra: la premier norvegese
Gro Harlem Brundtland diceva che i
principi di Pechino «saranno un pon-
te verso il futuro». Dopo vent›anni,
le aspirazioni grandiose di Pechino
sono invecchiate. Ma il futuro incal-
za. Vent›anni dopo dobbiamo scrivere
un›altra puntata. Con meno ambizioni,
ma con assoluta urgenza. b
Oggi avrei voluto scrivere di me-moria, di quella che non abbia-mo più in testa, perché è conser-
vata nel disco rigido del pc, cui abbiamo
affidato passato ed emozioni. Che tali
forse non possono nemmeno essere
definite perché bruciate a gran velocità
e quindi neppure degne di essere ricor-
date. L’unico archivio nel quale io credo
è il corpo. Nei giorni scorsi ho riletto
una lettera inviata a una persona che
ho veramente amato. Era l’ottobre 2013
e scrivevo così: “Non mi convincono
le persone che tentano di conquistare
gli altri con tormenti dell’anima, com-
plessità intellettuali, narrazioni di vita
antica e mura difensive da abbattere. Io
preferisco il processo contrario, perché i
dolori, le inquietudini e le vergogne sono
talmente intimi che richiedono una
confidenza sperimentata, anche e so-
prattutto, prima, nella gioia e nel diver-
timento. Non credo ai legami affettivi, di
amicizia o sentimento, nati sulla condi-
visione del malessere, che poi, secondo
varie declinazioni e gradi di intensità,
appartiene a tutti. Per questo, forse, io
all’inizio mi presento nella versione più
superficiale. Poi, se voglio bene, sbaglio.
Eccome. Perché divento fragile come la
pasta frolla, cui bisogna dare una forma
che spesso non prende nonostante si
cerchi di modellarla con la forza delle
mani. Perché tornano paure antiche,
che non sono quelle naturali della vita
amorosa. Sono quelle che rimangono
nella memoria del corpo, da prima, da
subito, dal primo vagito”. Ho ripreso
questo concetto, testuale, e l’ho inserito
nel mio libro di prossima uscita, dove chi
mi rimprovera un certo cinismo scopri-
rà che anche io ho un cuore. E come me
tanti altri, che delle parole fanno poco
uso ‘personale’. Io da sempre preferisco
quelle silenti, che ci arrivano solo come
vibrazione dell’anima. Le preferisco a
quelle scritte, spesso tanto anticipatorie
quanto gratis. Belle da ammirare in va-
nagloria sullo schermo del cellulare o da
sentirsi rivolgere, ma sulla cui veridicità
ci sarebbe da discutere. Quante volte si
sprecano i ‘ti voglio bene’ senza riflette-
re sul significato vero dell’enunciazione,
che sta per ‘io voglio il tuo bene, a disca-
pito del mio, secondo i tuoi bisogni’. Il
guaio è che le persone come me passano
per burbere, soprattutto oggi giorno che
vomitare la propria vita di fronte a una
platea avida di fatti altrui è cosa facile.
Non a caso per il nome della rubrica mi
sono ispirata a Santippe, passata alla
storia come moglie rompiscatole di So-
crate senza che nessuno si interrogasse
su cosa pensasse e desiderasse lei. Non
cercare il ‘consenso’ viene individuato
come difetto o nelle migliori delle ipote-
si come incapacità di ‘lasciarsi andare’.
E invece così non è, perché il vissuto è
dentro e c’è anche se non viene dichiara-
to; le emozioni sono nella pancia, nelle
braccia e nelle gambe, anche se coperte
dai vestiti; le paure sono arginate da un
bisogno di ordine che non è vigliacche-
ria. Per fortuna la vita vera non è come la
politica e non è indispensabile mettersi
ai voti e piacere a tutti. Ecco, io ho fat-
to questa scelta, in amore e in amicizia.
Per noi ‘non cinici’ la libertà è questa,
presentarci per quello che non siamo,
lasciando a chi ha pazienza e curiosità
l’esclusività di scoprirci per quel che sia-
mo. Senza troppe parole.
di Camilla Ghedini
LE BELLE PAROLE SILENTI
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