Numero 10 del 2015
Madri
Testi pagina 46
44 Ottobre 2015
È nella pazienza e nel tempo, a volte immobile, che si costru-isce il desiderio. Perché non si può vivere senza “qualcosa da aspettare”. Nella mia infanzia che ricordo sempre con
infinita riconoscenza, i desideri erano dilazionati, tutti o quasi. Un
giocattolo, l’inizio della scuola, la festa di compleanno, un viag-
gio tanto fantasticato: nessun desiderio o quasi era destinato a
una risposta immediata. Poi si doveva a volte sopportare anche
il peso del rinvio per il tempo inclemente o per un imprevisto
dell’ultima ora. Ricordo per me l’attesa della scuola, dell’arrivo dei
libri di testo, con l’indimenticabile odore di carta appena stam-
pata. La scuola, appunto, rappresentava quel mondo di relazioni
assai invitante per la bambina piuttosto solitaria che ero io e poi,
stanca di tutte quelle incombenze quotidiane, i compiti, i ripassi,
le letture volontarie, c’era l’attesa agognata che la scuola finisse di
nuovo, perché anche il tempo della vacanza (il mare, la partenza
familiare, le lunghe giornate assolate libere da obblighi scolasti-
ci) era separato da quello dell’attività in maniera ben più definita
di quanto non accada adesso: io non facevo settimane bianche,
o week end aggiuntivi e le vacanze di Natale o di Pasqua erano
anche una grande fatica di compiti da fare, lezioni da imparare,
disegni particolari per celebrare la festa.
Ricordo che per tutta la mia carriera scolastica ho sempre stu-
diato a menadito i tempi verbali e addirittura alle elementari
si organizzavano gare tra le classi sulla velocità di risposta alle
sollecitazioni di un maestro competitivo ed esigente. A scuola
studiavamo il presente, il passato prossimo, il passato remoto,
il futuro, il futuro anteriore. Forse i bambini di oggi li studiano
ancora, questo non lo so, ma nel linguaggio quotidiano sono ri-
masti il presente e il passato prossimo: tutti gli altri sono stati ri-
succhiati in un vortice di appiattimento. Studiare i tempi verbali
aveva senso perché il tempo di tutti aveva allora sue partizioni
rigide, indiscutibili. La sirena di una vicina fabbrica di confezio-
ni ci diceva che era mezzogiorno o le diciotto, la domenica, il
campanile della chiesa rintoccava ogni ora e con un solo piccolo
suono le mezzore. L’orologio vero, quello importante, da far ve-
dere agli amici era il regalo più ambito della prima comunione,
a sette otto anni, segno di un passaggio d’età ancora fortemente
ritualizzato perché netto e definito. Oggi anche i bambini hanno
uno Swatch di plastica e addirittura sbirciano l’ora sul telefonino
passato dai grandi a loro quasi inconsapevolmente.
La pazienza del desiderio è stata sostituita dal tutto e subito,
dall’intollerabilità dell’attesa, dall’insofferenza per quello che con-
sideriamo tempo vuoto e tempo sprecato. Siamo tutti nella trap-
pola del tempo che è denaro e ci vuole molta saggezza anche solo
per imporsi o immaginare l’otium, il tempo davvero liberato in cui
si sedimentano le emozioni, il tempo in cui la mente gira a vuoto
ma solo apparentemente, il tempo in cui i desideri prendono la
forma di progetto e i progetti prendono corpo. Ci forziamo a ri-
nascere ogni giorno, quasi privi come siamo di memoria storica,
e la fatica di essere eternamente giovani cancella la possibilità
dell’attesa, della pazienza, di un progetto che contempli anche la
fine e non solo un fine. L’attesa oggi è diventata attesa del subito.
Il desiderio non ha modo di costruirsi, di diventare progetto. Il
tempo morto quando si guida, in fila alla posta, appesi al corri-
mano dell’autobus, è percepito come qualcosa di intollerabile. Ma
intollerabile, così, diventa il pensiero, perché è proprio nei tempi
cosiddetti morti che si fanno le associazioni di idee, che la mente
vagola in libertà, insomma che si formano le idee nuove. C’è stato
un periodo in cui i tempi morti erano scomparsi dalla mia vita. Fa-
cevo di tutto, dicevo sì ad ogni proposta ed era vietato fermarmi.
Mai mi sono sentita cosi alienata e lontana dal mio centro. Ero
piena di cose da fare, non perdevo un minuto e mi sentivo attiva e
agitata. Il risultato è stato che la testa, il pensiero, l’immaginazione
non mi hanno mai funzionato così poco come in quella fase. Sono
convinta che anche quest’inzeppamento contribuisca a rendere
il fare politica quella morta gora che è sotto gli occhi di tutti: un
eterno presente cui la progettualità di lungo respiro si trova ine-
vitabilmente sacrificata. Quasi inavvicinabile. E impossibile da
attuare. Non esiste prospettiva. Non esiste futuro da immaginare.
Figuriamoci da sognare.
Life coaching
[ Decima puntata ] di Catia Iori
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