Numero 7 del 2007
Uomini contro la violenza sulle donne
Testi pagina 36
Vale la pena ogni tanto di riprendereil filo della memoria e, per esempio,
riandare ai decenni precedenti il 1989:
forse si capisce meglio, come donne, il
mondo di oggi, anche sul piano interna-
zionale.
Non è facilissimo ricordare che negli
anni '70/'80 del secolo scorso l'America
latina era una specie di lager, con qua-
si tutti i paesi del continente sotto go-
verni militari. Si parlava molto di "im-
perialismo delle multinazionali" e della
responsabilità indiretta che questo fat-
tore assumeva
nelle repressioni; da parte sua la si-
nistra sosteneva le "lotte di liberazione
dei popoli"per la loro "autodetermina-
zione". Espressioni quasi tutte in disuso:
gli anni trasformano le situazioni. Infat-
ti, non si è più parlato delle multinazio-
nali perché già allora avevano vinto e
la globalizzazione ora lo dimostra; an-
che le lotte popolari - compresa l'ultima,
quella del Chapas, che varcò la soglia
dei metodi tradizionali ricorrendo all'u-
so innovativo delle nuove tecnologie e
rifacendosi a una
concezione pacifista - sono confluite
nell'accettazione di governi senza più
divise militari, di elezioni non più con-
dizionate e del "libero" gioco democrati-
co.
Sono stata molto contenta di avere
rievocato queste situazioni, con passio-
ne intellettuale ma senza rimpianti, con
l'amica guatemalteca Aura Marina Ar-
riola, tornata per brevi giorni in Europa
e in Italia, e che ho voluto salutare, non-
ostante i pressanti impegni reciproci, in
una precipitosa andata a Roma, pochi
mesi fa: non potevo prevedere che era
un saluto definitivo.
Un'amica a me cara: per questo ne
vorrei parlare anche ad altre donne. A
suo tempo fu, in Guatemala, dirigente
politica della resistenza armata: erano i
lunghi decenni in cui nel piccolo paese
centroamericano si succedevano le peg-
giori dittature della storia. In una na-
zione in cui più della metà degli abitan-
ti è india, non parla lo spagnolo e vive
tuttora il lutto per la perdita delle pro-
prie divinità, "sconfitte" dalla conquista
che mise fine ai regni Maya, non solo un
golpe sanguinoso nel 1954 ha messo fi-
ne alla breve storia democratica aperta
dal governo Arbenz, ma sono state
perpetrate le stragi atroci di cui Ri-
goberta Menchu, l'india premio Nobel
che forse sarà candidata alla presiden-
za, ha dato testimonianza e sono stati
perseguitati i diritti umani con impri-
gionamenti, torture e uccisioni di politi-
ci, sindacalisti, intellettuali.
Come capita spesso a chi si impegna
in politica, le tradizioni di famiglia con-
tano: il nonno di Marina era stato as-
sassinato per ordine del dittatore Estra-
da Cabrera, il "Signor Presidente" del ro-
manzo di Miguel Angel Asturias; il pa-
dre, un liberale progressista, aveva lot-
tato contro i dittatori Ubico e Ponce ed
era in carcere quando esplose la rivolu-
zione che aprì il cammino agli unici
dieci anni di democrazia del Guatema-
la e che portò il dottor Arriola amba-
sciatore in Messico. Marina divenne
sempre più consapevole delle condizioni
misere dei popoli latinoamericani e fece
scelte più avanzate, come capita alla
generazione più giovane. Frequentando
la facoltà di antropologia All'Università
di Città del Messico, si era dotata di
strumenti non solo culturali. Nel movi-
mento studentesco è sempre stato facile
sentire la suggestione dell'impegno estre-
mista: la rivoluzione le sembrava la so-
la via di liberazione. Come donna, si
scontrò con i problemi "di genere": con il
padre che, progressista e massone, non
accettava che una donna si dichiarasse
atea; con i dirigenti politici
abituati a dare e non a ricevere ordi-
ni e irritati dagli interventi critici non
"in linea"; con gli uomini amati che, an-
che nella relazione più calda, non si
fanno carico delle responsabilità del
proprio genere. Le persecuzioni del go-
verno e i dissidi con i compagni causa-
rono la scelta obbligata dell'esilio in Eu-
ropa e l'Italia divenne il suo nuovo pae-
se, da dove mantenne costante l'impe-
gno politico e i contatti con la resisten-
za, come fanno tutti i fuorusciti.
Fu allora che ci siamo conosciute: io
ero in Commissione esteri; mi occupavo
molto di America Latina e conoscevo
tanti esuli di quel continente. Esistevano
allora in Italia "comitati di solidarietà"
con quasi tutti i paesi a regime dittato-
riale: rappresentavano luoghi in cui ve-
niva affrontato seriamente almeno un
problema e giovani e meno giovani rice-
vevano l'informazione corretta che i me-
dia normali non danno mai.
Allora scrivevo sul Manifesto; anche
Marina si era molto legata a questo
giornale, che dava particolare impor-
tanza all'internazionalismo, e al suo di-
rettore.
Ma, a prescindere dalle vicende di
persone e di anni di cui si crede di sape-
re quasi tutto, fu interessante anche il ri-
entro di Marina in America latina e il
suo stabilirsi in Messico, come ricerca-
trice, prima nell'Istruzione pubblica, poi
alla Direzione di Etnologia e antropolo-
gia sociale dell'Università, dove espres-
se la sua professionalità senza smentire
l'interesse politico. Come scomoda era
stata con i suoi compagni, così seguì in
totale autonomia l'evolversi della storia
latinoamericana senza rinnegare un
passato legato a condizioni precise del-
la sua vita e della storia in generale, ma
anche senza nostalgie per le rivoluzioni
impossibili. Sempre attiva sul piano dei
diritti - individuali e dei popoli - mi in-
viava materiali d'informazione, convin-
ta - come sono io - che, se non ci si ar-
rangia a cercare di capire come vanno
per davvero le cose nel mondo, è inutile
credersi di sinistra o progressisti. Da
donna, teneva i piedi per terra. E si ren-
deva conto, come mi rendevo conto io
da un altro paese, che bisognava segui-
re il mondo nelle sue trasformazioni:
avere fede nell'utopia, significa spostare
i traguardi delle successive realizzazio-
ni presumibilmente positive per l'umani-
luglio/agosto 2007 noidonne36
Una rivoluzionaria con “i piedi per terra”
Anna Marina Arriola
Giancarla Codrignani