Numero 4 del 2016
Europa (in)difesa. Barriere politiche e culturali
Testi pagina 33
31Aprile-Maggio 2016
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morti tra i civili, nel silenzio quasi totale della stampa in-
ternazionale e nel disinteresse dei governi europei che,
incuranti di questi massacri, hanno siglato un’intesa con il
governo turco per il controllo dei flussi migratori lo scorso
18 marzo, un accordo giudicato da Amnesty International
“un colpo di proporzioni storiche ai diritti umani”.
Non va meglio in Siria dove, in continuità con le violenze
inflitte al popolo curdo da Assad, avvengono ogni giorno
omicidi e stupri etnici, perpetrati sia dai miliziani di Da-
esh che dall’esercito di liberazione siriano, 30mila solo nel
biennio tra il 2009 e il 2011, come denunciava la parla-
mentare Mulkiye Birtane intervistata da Emanuela Irace
(NOIDONNE, agosto 2013).
Anche la storia dei curdo-iracheni è stata segnata da violen-
ze di ogni sorta soprattutto fino alla caduta del regime di Sad-
dam Hussein, acerrimo nemico del popolo curdo e fautore di
massacri passati alla storia come l’attacco chimico di Halabja
in cui morirono oltre cinquemila curdi. Oggi però la situazio-
ne appare diversa nel Kurdistan iracheno, che ha esteso nel
2003 i suoi confini anche a Sud. Tre sono le regioni ricono-
sciute dal governo centrale, Sulaymaniyya, la capitale Erbile
Dahuk, mentre altri territori sono ancora oggetto di dispute tra
curdi e arabi. Proprio nel Kurdistan iracheno oggi, a causa
della guerra, vivono circa 250mila curdo-siriani negli enormi
campi profughi delle città di Arbat, Erbil, Kalar, Kirkuk, tra le
altre. Questo rapporto particolare tra curdi di origini diverse è
stato raccontato nel documentario indipendente “Due paesi
un esilio” realizzato dal cooperante italiano Federico Dessì e
dal videomaker francese Justin de Gonzague, e fa parte del
progetto Focus on Syria (www.focusonsyria.org).
Tanti, inoltre, sono i rifugiati curdo-siriani che lavorano nei
cantieri per la costruzione di grattacieli e grandi opere. Una
realtà, quella del Kurdistan iracheno, che dal punto di vista
socio-economico somiglia molto di più al modello occiden-
tale che al confederalismo democratico teorizzato da Ab-
dullah Öcalan, leader curdo che nel 1978 ha fondato il PKK,
Partito dei lavoratori del Kurdistan, e che dal 1999 è dete-
nuto in isolamento nell’isola turca di ?mral?. Sue le idee che
ispirano le coraggiose combattenti delle YPJ, l’ala femminile
dello YPG, letteralmente ‘Unità per la protezione della po-
polazione’, la cui vita e visione politica è raccontata nel film
‘Her War: Women vs. ISIS’. Si deve a queste combattenti
la liberazione di Kobane nel gennaio del 2015 ed è proprio
nella regione del Rojava che è divenuta realtà un’idea di co-
munità e di democrazia dal basso in cui la parità di genere
in ogni ambito della sfera pubblica e privata costituisce la
base su cui creare prosperità, pace e libertà per tutti e tutte.
Sebbene il fine ultimo sia una società pacifica, le combatten-
ti in Rojava rivendicano il loro ruolo come donne guerrigliere,
anche perché è difficile rifiutare l’idea di combattere quando
le armi del nemico sono a pochi metri da te e imbracciarle
a tua volta è l’unica possibilità di salvezza. La possibilità di
intervistare due attiviste curde, Ala Ali e DilarDirik, ha aper-
to nuove prospettive di ragionamento e ha consentito una
maggiore comprensione anche delle differenze che esisto-
no tra loro nelle diverse zone. Alcune imbracciano il fucile,
altre insegnano sotto le bombe, altre ancora assistono quel-
le che hanno subito traumi durante la guerra dentro e fuori i
campi profughi. Altre conducono ricerche e fanno pressioni
sui governi affinché si occupino anche della sorte di donne
e bambini invece di considerare gli stupri e la tratta di esseri
umani solo come danni collaterali del conflitto. Appare com-
plicato, con una guerra ancora in corso e un clima di diffusa
instabilità politica in vaste aree del Medio Oriente, pensare
ai curdi come ad un unico popolo che aspira ancora alla
riunificazione e a uno stato unitario. Diversa è la storia delle
rivendicazioni curde nei quattro stati in cui vivono, diverse
appaiono oggi le istanze e le soluzioni proposte. Sia Dilar
che Ala sono però convinte che è impossibile costruire alter-
native di libertà e pace se le donne non stanno al centro dei
processi di autodeterminazione e di cambiamento, se non
vengono considerate attrici cruciali per porre fine alla guer-
ra e allo strapotere maschile ancora forte in molte società
medio orientali, e non solo là. Servono le donne anche per
abbattere il muro più resistente, quello del patriarcato, che
sta ancora in piedi nonostante le bombe e i proiettili.
Marzo 2016
AMARGI, OVVERO ‘LIBERTA’
Questo simbolo è la rappresentazione
del termine amargi o amagi, la prima
parola conosciuta di un linguaggio
umano per indicare la “libertà”. Si tratta
di un termine sumero e letteralmente
significa “ritorno alla madre” dal
momento che era proprio questo che
si concedeva ai “forzati del debito”,
ovvero quelli a cui venivano estinti i
debiti e che tornavano in possesso della
terra. A questi individui veniva permesso
di fare ritorno alle loro famiglie e da qui
il significato letterale del termine. Di
questo vocabolo ne scrive David Graeber
nel libro “Debito, i primi 5.000 anni”,
ma dobbiamo a Dilar Dirik la scoperta di
questo termine.
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