Numero 1 del 2016
L'utero è mio e....? Maternità surrogata
Testi pagina 31
29Gennaio-Febbraio 2016
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I
Le donne
prime sentineLLe
ambientaLi
di Emanuela Irace
troppa o poca pioggia sta provocando
una emergenza umanitaria progressiva.
i rifUgiati cLimatici saranno circa 500
miLioni entro iL 2050 e aLmeno 200miLa
si sposteranno daLL’africa
piccole isole che scompaiono, popolazioni senza più terra ma anche dati statistici e cifre che si dimenticano. Come il numero delle vittime di un uragano, donne e uomini
scampati allo tsunami o al ciclone Katrina. Intere famiglie sfollate e
dirottate nei campi profughi. Sono i popoli strappati alla terra dopo
una catastrofe naturale. Sono i sopravvissuti alla siccità o alla
troppa acqua. Per molti osservatori sono le vittime di un modello
di sviluppo che produce rifugiati ambientali, con cifre da capogiro.
Secondo un rapporto dell’Environmental Justice Foundation,
sfioreranno i 500 milioni entro il 2050. Tra questi
almeno 200mila, soltanto per l’Africa, potrebbero
accedere allo status di rifugiato climatico.
Una emergenza umanitaria progressiva, meno eclatante della
guerra, ma che come la guerra richiede protezione. “Environmental
refugees”, è stato il termine coniato per gli oltre 300mila evacuati
in seguito all’esplosione del reattore nucleare di Chernobill.
Era il 1986. Da allora in ambito accademico la configurazione
giuridica si è evoluta. “Il punto - spiega la giurista Anna Brambilla
- è trovare una categoria di protezione umanitaria che connoti i
rifugiati climatici dando loro uno status giuridico che li differenzi
da altre categorie di migranti e richiedenti asilo”. Un popolo di
invisibili, quasi sempre piccoli gruppi sociali, prevalentemente
donne, contadini e pescatori che hanno perso ogni capacità di
auto sostentamento. Intere comunità che in ogni parte del globo
sono costrette a migrare perché il mare entra dappertutto e il sale
brucia la terra. Perché la stagione delle piogge dura meno con
conseguenze drammatiche in tutta l’Africa australe, ma non solo.
In Senegal per proteggere le coltivazioni si potenzia l’utilizzo di
mangrovie, le foreste acquatiche che trattengono l’alta marea. Ai
bordi del lago Vittoria si coltivano varietà arboree che fanno da
scudo ai problemi legati alle variazioni climatiche. Piogge che
duravano 80 giorni ridotti a 60 e ci si industria importando razze
di capre capaci di sopportare lunghi periodi di siccità. Altrove
non c’è modo di resistere. In Tchad il cambiamento climatico
spinge interi villaggi a continui spostamenti interni, col corollario
di tensioni inter-etniche strumentalizzate dal terrorismo di matrice
jihadista. Succede in Mali nella comunità peules dove ancora
una volta sono le donne le prime sentinelle ambientali. Attente ai
particolari sono le prime a monitorare il territorio perché sono loro
da sempre a cercare cibo e acqua per la famiglia. Anche la salute
della comunità è in mano alle donne. Erbe medicinali sensibili ai
cambiamenti ambientali che non si trovano più mettendo in crisi
economie basata sulla sussistenza. Migrazioni fuori confine per i
rifugiati del Bangladesh fuggiti da paesi letteralmente sommersi
dall’acqua. Fantasmi che sfuggono alle statistiche e nessuna
legge internazionale che li riconosca.
Condizioni legate all’ambiente che
sono sempre esistite ma che negli
ultimi due decenni hanno subito
un’impennata. Che si abbracci la
tesi negazionista o che si esageri
nell’allarmismo resta un dato
incontrovertibile: sono sempre meno
le terre a disposizione, e senza
terra non c’è cibo. “Per questo -
prosegue la giurista Anna Brambilla
- “è indispensabile considerare il contesto di provenienza e
distinguere tra ambiente e clima, tra migrant worker e rifugiato
climatico”. Un rompicapo per associazioni come l’UNCHR e uno
spauracchio per la politica che prima o poi dovrà confrontarsi con
una nuova categoria di richiedenti asilo. b
foto tratte dal sito:
http://www.alovelyworld.com/webmali/htmfr/djenne_
marche_malienne.htm
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