Numero 10 del 2015
Madri
Testi pagina 23
21Ottobre 2015
esami pre-concezionali, sono andata all’estero dove ho
trovato professionalità e un forte senso di civiltà fra per-
sonale medico e paziente. Ho vissuto due gravidanze
su tre tentativi, la terza si è conclusa con un aborto per
morte dell’embrione in utero alla decima settimana e per
assurdo, nel contesto fortemente gravato dall’obiezione
di coscienza in cui viviamo, mi sento fortunata perché il
mio ginecologo mi ha praticato il recuttage non sottopo-
nendomi al dolore fisico e psicologico di un’espulsione
fisiologica dell’embrione. Dalla prima gravidanza invece
è nata morta Zoe, con un cesareo d’urgenza, l’8 dicem-
bre del 2010. Il mio corpo si era fatto casa diventan-
do luogo di dinamiche impreviste ad ampio raggio. Ho
sempre pensato che piuttosto ché sottoporsi a pratiche
invasive sarebbe più giusto battersi per l’adozione ai e
alle single.Tuttavia l’adozione non prevede il tempo, lo
spazio e il luogo della gravidanza, come esperienza dei
corpi, quei mesi di intensa attività, di scambio e dialogo
continuo fra quei due corpi, un laboratorio del sé per
ciascuna delle due: entrambe creature, entrambe crea-
tore di sé e dell’altra. Uno spazio, quello dell’utero e un
luogo, quello della gravidanza, “civile perché politico”
dice Emma Baeri, e non il tempo statico dell’attesa come
il patriarcato ci ha insegnato per invidia e per paura di
questa fertile potenzialità dei corpi nati portatori di utero
e ovaie, socialmente riconosciuti come femminili, corpi
portatori di vita e morte insieme, morte come vita.
La nostra società rimuove costantemente la morte e non
vi è alcuna cittadinanza per le morti perinatali, anzi, l’idea
va cancellata, è un tabù, quasi una vergogna. Le donne
e le coppie che subiscono una tale lacerante esperienza
non sono supportate in alcun modo nell’elaborazione di
un lutto che è doppio perché, oltre la morte in sé, va
elaborata la brusca e imprevista frattura fra progetto e
realtà. Ma per me è impossibile rimuovere un’esperienza
così importante, quella piccola vita che ha abitato bre-
vemente il mio corpo ne ha modificato profondamente
struttura e capacità percettiva, regalandomi un’energia
inusitata: vivo come una e vivo come due, e per due,
ormai entro ed esco dal mio dolore con grande velocità,
piango e rido insieme e, come mi ripete Emma, speri-
mento un modo imprevisto di governo della simbiosi.
A partire dalla mia storia mi fa un po’ paura l’avvento
dell’utero artificiale, al quale però farei ricorso imme-
diatamente se fosse già una realtà - le contraddizioni
sostanziano la nostra esistenza - perché lo sento come
espropriazione di una esperienza possibile e foriero
di nuovi scenari di marginalizzazione, sfruttamento ed
esercizio di potere sui corpi femminili. In tal senso riven-
dico la mia “isteria” come momento creativo di un altro
corpo e di me stessa, come legame emotivo e sessuale
con mia madre, e come espressione orgogliosa di un sé
castrato dal patriarcato: penso alle lacrime, all’emozio-
ne, all’ansia come sentimenti che si possono liberamen-
te esprimere, mentre il patriarcato ha prescritto che in
certi contesti essi sono sconvenienti e fuori luogo. Col
senno di poi posso dire che la prima tappa nell’elabora-
zione del mio lutto è stata guardare a lungo il corpo nudo
di mia figlia fuori di me, carezzarla prima che la picco-
la bara fosse chiusa, pensarla viva dentro di me e, la
sera precedente, quella doppia onda nel mio pancione
governata da lei, un saluto forte, determinato, carnale:
“ciao mamma, ci sono, ci sono stata”. ?
Sara Catania Fichera, 6 settembre 2015
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