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Numero 1 del 2009

Verso un nuovo mondo?


Foto: Verso un nuovo mondo?
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Testi pagina 2

Èun'intervista a Miriam Makeba delmaggio 1990 che non è stata pubbli-
cata. Domande e risposte battute a
macchina sono rimaste al buio per mol-
ti anni. Semplici appunti di un'emozione
condivisa che oggi trasporto sulla ta-
stiera di un computer senza correzioni
per ricordare la grande cantante scom-
parsa. Nell'atrio dell'albergo che la ospi-
ta, Miriam Makeba cammina con il
passo lento e strascicato delle donne
della terra africana. Si stenta a credere
che questa signora dalla voce sommes-
sa e modesta nel vestire, sia l'artista su-
dafricana che per trent'anni ha cantato
con incandescenza la rabbia, la speran-
za, la rassegnazione della gente di colo-
re segregata dall'apartheid. Eccola sedu-
ta, "Mama Africa", la voce calda e
aspra di tante emozioni compresse: ha i
capelli cortissimi, il volto nudo. Indossa
una maglietta felpata su pantaloni neri
sformati dall'uso. Dei costumi di scena e
delle acconciature sontuose che hanno
reso famosa la cantante di "Pata Oata"
neppure l'ombra.
All'accenno della tragedia, perchè di
tragedia si tratta, che si è consumata
nel suo Paese, il Sudafrica, abbassa gli
occhi. "La gente teme quello che le è sco-
nosciuto. L'incontro è la chiave di rap-
porti migliori. Ma gli esseri umani non
impiegano abbastanza tempo per acco-
starsi gli uni agli altri. Forse, se gli uo-
mini che reggono i destini dei popoli
avessero una precisa politica di contat-
ti fra i giovanissimi di diversi paesi…
chissà, forse avremmo un domani mi-
gliore. I bianchi in Sudafrica non hanno
mai speso un frammento del loro tempo
per conoscere veramente come vivono i
neri e dove. Durante la mia infanzia,
mia madre lavorava a Johannesburg co-
me domestica in una famiglia. Una vol-
ta sola a settimana le era consentito di
tornare a casa. Nessuno, mai, nemmeno
dopo anni di servizio, le ha mai rivolto
una domanda di carattere personale.
Negli egoismi, nella disattenzione, nel-
l'indifferenza si radicano sospetti e pau-
re". Ripercorre le memorie, racconta gli
anni giovani con malinconia e distacco:
la madre sempre assente, la nonna che
la sostituiva, il canto, compagno di tan-
te ore a casa, a scuola, in chiesa. Nei
grandi occhi scuri e miti di Miriam c'è
un'espressione di smarrimento e nel suo
gesto una sorta di pudore quando rievo-
ca il clima di violenza creato da un'in-
giustizia immane, il dolore della sua
gente spossata dal pianto, le leggi in-
spiegabili e aberranti che non hanno
consentito a tutti gli uomini di vivere la
loro dignità. Però non calca mai la ma-
no, come se sentisse che la partecipa-
zione dell'interlocutore è cosa remota. E
forse è vero. Bisogna essere nati con la
pelle d'ebano per dividere questa lacera-
zione insieme a lei, bandita da un go-
verno di bianchi per avere fatto del suo
talento vocale un'arma contro la segre-
gazione.
L'odio ha spazio nei suoi sentimenti?
"Penso che ci voglia più sforzo a fare
una faccia brutta che a sorridere. Odio,
risentimento, rabbia sottraggono tanto
potenziale emotivo. Io non ce l'ho tutta
questa energia da disperdere. Quando
ho incontrato Nelson Mandela, mi ha
detto: 'Abbiamo deciso di negoziare con
gli oppressori. Se non puoi dimenticare,
cerca almeno di perdonare. Altrimenti
non si approderà a nulla".
Quando è venuta in Italia per la pri-
ma volta?
"È stato nel 1959, in occasione della
presentazione a Inezia del documenta-
rio 'Come back, Africa', dove sostenevo
una parte vocale. Ricordo che percorre-
vo in automobile la distanza fra Aix-en-
Provence e Venezia. Per strada ho visto
donne bianche intente al raccolto e an-
che uomini bianchi che lavoravano so-
do, trasportavano pesi, faticavano. Ne
sono rimasta sbalordita. Nelle costru-
zioni della mia mente eravamo noi a fa-
re i raccolti, noi a sgobbare, noi a stro-
finare. Giunta a Venezia, l'oggetto di cu-
riosità ero io. La gente non era abituata
ai neri. Mi aggiravo per la città, così,
come sono ora, con un abbigliamento
qualunque ed ero sconosciuta. Ma pic-
coli gruppi mi seguivano dappertutto,
cercando di osservarmi da vicino. Ave-
vo paura, credevo volessero farmi del
male. Quando sono entrata nell'atrio
del mio albergo, una donna con due
bambini mi ha incalzato e si è rivolta
all'impiegato del banco indicandomi.
'La signora vorrebbe toccare i suoi ca-
pelli - mi ha spiegato lui -. 'Sì, perché
no?' ho risposto sollevata. E la donna lo
ha fatto. E anche i bambini, tutti con
grande meraviglia, perchè i capelli al
tatto non erano ruvidi. E i ragazzi mi
hanno strofinato la pelle per accertarsi
che n on si trattava di un colore appli-
cato". Da allora, "l'imperatrice della
canzone africana" il raccolto l'ha fatto
lei, di successi. Fra i tanti, quello strepi-
toso con Harry Belafonte, che proprio a
Venezia l'aveva notata. Ovunque nel
mondo dove lei ha rappresentato un ri-
chiamo assoluto. L'hanno voluta incon-
trare Hailé Selassié, Fidel Castro, John
Kennedy e François Mitterrand. Eppure
lei appare intimamente avvilita, stanca
velata da un'ombra di tristezza.
Quando si chiude alle spalle la porta
di una camera d'albergo si sente sola, le
mancano le radici, le brucia l'esilio. "La
mia mente è sempre laggiù, nel paese
più bello della terra, a casa mia. Mi ri-
peto che un giorno tornerò per non pie-
garmi allo scoraggiamento Ma il pro-
cesso verso la democrazia si annunci
lento. Qualche volta è tutto così oscuro
che temo di morire prima".
gennaio 2009 noidonne2
Miriam Makeba
Mirella Caveggia
segue a pag. 27
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