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Numero 4 del 1952

Noi Donne VII n.4 / Maria Maddalena Rossi racconta Dolores Ibarruri

La copertina dedicata alle protagoniste del Film di Luciano Emmer ”La ragazza di Piazza di Spagna”.
Un artcolo di Maria Maddalena Rossi racconta il gesto molto speciale di Dolores Ibarruri, nota come La Pasionaria, che volle donare a Firmina Marzi,la propria catenina d’oro come riconoscimento per aver raccolte migliaia di firme contro la bomba atomica, e che ancora nel tentativo di sensibilizzare dei generali americani contro la stessa bomba, fermando il loro mezzo, era stata messa sotto la macchina.
Articolo ricco e articolato di Fausata Terni Cialente sul processo alle donne di San Severo, dopo due anni di carcere ingiusto per aver partecipato ad uno sciopero a sostegno della denuncia per la morte di un operaio di Parma essendo state prese nella sede del sindacato e riparatesi a seguito di forti provocazioni fasciste.
La novella “Quando si ama” di O.Henry, la 28° puntata del ”Ritorno sul fiume“ di Lucia Ashley, la prima puntata della “Quinta Strada” di Luciana Peverelli, ”Celestina” è la novella di Silvana Cichi.
L’articolo di Ghita Marchi su “Orrori della società americana”.
La moda che sottolinea nuovi modelli che propongono abiti a giacca .
Anna Maria Ortese inviata a Palermo all’incontro con la delegazione sovietica e racconta l’incredibile successo e le emozioni suscitate dalla presenza dei dirigenti Berezin e Timoviev.
Proseguono i fotogrammi del Film di Jean Paul Le Chanois, alla terza puntata .
Marco Viane recensisce due film sovietici di successo: Un treno va in oriente / Uomini di successo.


Foto: Noi Donne VII n.4 / Maria Maddalena Rossi racconta Dolores Ibarruri
PAGINA 16

Testi pagina 16

Celestina
Novella di Silvana Cichi
La bambina giaceva piccola piccola sul gran letto matrimoniale, al centro della stanza. Aveva la pelle di un incerto color oliva, la bocca sottile livida, i capelli spinosi e neri raccolti in una trecciolina sfatta. Era morta da mezz’ora: accanto a lei era la madre seduta su un basso sgabello, con la gola arida, gli occhi che dolevano incapaci di piangere. Il padre era in cucina e il capo poggiato sul tavolo di legno, piangeva silenziosamente. La donna continuava a guardare la figlia ed ogni poco trasaliva, sembrandole che avesse respirato. Sapeva che era per sempre finito ogni palpito in quel corpo, pure i suoi occhi incerti nell’ombra della sera, vedevano, per un disperato desiderio del cuore, impercettibilmente sollevarsi l’abitino di cotone. Ancora l’ignoravano nel paese, e i genitori non riuscivano a capire, smarriti, increduli, sospesi sul loro dolore.
Tre anni prima erano usciti dalla chiesa sposati e pieni di speranze. Gavino aveva un bell’abito di velluto verde e la camicia bianca, senza colletto era chiusa da uno scintillante bottoncino d'ottone. Fra le mani teneva un berretto a visiera, nuovo. Gesuina era vestita semplicemente di azzurro, un abito corto di seta vegetale, un fazzoletto bianco ricamato sul capo. Nonostante il matrimonio fosse povero, tutti avevano gettato grano dalle finestre, per il buon augurio, perchè erano bravi ragazzi laboriosi, cosi il piccolo corteo era seguito da molte galline che beccavano affrettatamente quel pasto inatteso. Per tutto il pomeriggio giovani e vecchi avevano ballato per la strada. Erano venuti anche i due cugini di Gesuina, gobbi, che nell’impossibilità di trovare lavoro in paese, si accingevano a partire per Roma, decisi a vendere i biglietti delle lotterie. La sera andandosene avevano gridato: — «Buona fortuna e molti figli sani».
La vita era stata facile nei primi tempi: Gavino aveva messo da parte qualche soldo lavorando come muratore ai restauri della chiesa ed ora, da un momento all’altro si doveva iniziare la costruzione di un bacino idroelettrico. Poi il denaro finì, ma del bacino si parlava con sempre maggiori riserve. Incominciò un periodo di inquietudine, di attesa, di delusione. Si mangiava poco, le poche giornate nelle quali Gavino riusciva a lavorare non bastavano per vivere e Gesuina cominciò a fare il pane in casa d’altri, a lavare bucati al fiume, a raccogliere frutta negli orti altrui.
Una sera tutti erano in piazza quando passò il sindaco. Gavino lo apostrofò: — «Del bacino che si è saputo?» — «Che vuoi pensare al bacino adesso — rispose il sindaco urtato - chi vuoi che butti i miliardi alla vigilia di una guerra? Lo Stato? Lo Stato si deve armare!» E andò via quasi correndo. La notizia corse in paese gettando in tutti disperazione.
Si formarono i crocchi, l’aria era piena di discussioni, di rumore.
Quest’affanno durò fino a notte alta, poi tutti andarono a casa. Alcuni divisero i loro timori con le famiglie, altri tacquero per non turbare la quiete delle moglie e dei figli. Quando Gesuina vide Gavino comprese subito che qualcosa di brutto era avvenuto, ma si limitò ad osservarlo con apprensione, temendo che egli finisse con l’arrabbiarsi. Dopo mangiato, egli stava fumando vicino alla finestra ed ella gli sedette accanto; nel buio si guardarono. Poi ella uscì in un riso breve, sommesso: raccontò di una comare che aspettava un bambino e che non poteva sopportare nessun odore, specie quello delle stalle e degli animali, e che per questo girava sempre con un limone sotto al naso. Poi tacque, piena di trepido pudore. Ma il silenzio tornò nero e pesante nella notte afosa. Egli andò a letto ed ella lo seguì: — «Che è successo?» — gli chiese. — «Si parla di guerra, si parla di cannoni, ma del bacino non si parla più». Negli occhi di Gesuina balenò un attimo di pianto, e le guance si arrossarono violentemente. — «E tu mi parli di figli, quando sei senza pane». Gesuina si mise a sedere sul letto e lo guardò intensamente; egli a vederla così diversa da sempre, non più sottomessa e dolce, ma amara e tormentata, ebbe quasi timore. Lo prese per le spalle con mani fredde e dure: — «Non m’importa nè della guerra nè del bacino, io sono al mondo per questo, voglio avere dei figli». Si abbattè sul cuscino come se improvvisamente la stanchezza l’avesse vinta, si coprì gli occhi con la mano. Rimase a lungo immobile ed egli credette che piangesse. Invece lentamente sollevò la mano, l’appoggiò teneramente sul braccio del marito e i suoi occhi ispiravano pietà.
Piccolo e ridicolo come un fantoccio si agitò per un attimo davanti a Gavino il sindaco spaventato. Pensò in un baleno a Gesuina sorridente, il ventre rotondo e un limone sotto al naso: — «Buona fortuna — avevano gridato i due gobbetti — e figli sani». — «Noi temere, Gesuina, anima mia, che combatti silenziosa accanto a me, io sono il tuo uomo e tu non devi soffrire, non devi spiare invidiosa il passaggio delle tue vicine coi loro piccoli in braccio. Hai diritto anche tu di gridare orgogliosa a tuo figlio che il ramo del fico è traditore!
Nacque la bambina e la miseria era al colmo. Dopo una notte di dolore, sul far dell’alba, assistita da due vicine. Gesuina mise al mondo una creatura gracile e capelluta, che piangeva flebilmente. Una delle donne, come d’uso, le portò un uovo battuto. La neonata cominciò il suo vivere triste: in una cesta veniva portata nelle cucine infuocate dove si cuoceva il pane e veniva tolta di lì solo per i brevi momenti della poppata. Oppure trascorreva lunghe ore vicino al fiume, al sole o al vento, a fissare il cielo mentre la madre lavava i panni. Il latte aveva poca sostanza ma ella non piangeva più, poiché per istinto aveva appreso che alla fame non c’era rimedio nè conforto.
Gesuina aveva livide occhiaie e man mano che dimagriva la gonna le cadeva sempre più sui fianchi. Anche Gavino aveva occhi lucidi e cattivi nel viso segnato e scuro di barba; le grosse braccia pendule, andava di qua e di là nella casa o per le strade, cercando inutilmente quiete e speranza. Lunghe erano le giornate per quella mente usa solo alla concentrazione del lavoro, e non c’era nemmeno la figlia a sollevare ed occupare quelle ore poiché entrambi di fronte a lei cosi pallida e patita provavano una sorta di rimorso, che li irrigidiva e li faceva distogliere da lei. Parlavano poco tra loro ormai, sembrava finita ogni dolcezza, vivevano isolati nella loro acre disperazione. Ci fu solo un momento di allegria: quando Gavino tornando a casa trovò la figlia non più in braccio, ma attaccata alle gonne della madre, malferma e un po’ goffa. Si sorrisero:
— «Vieni, vieni da babbo» la incitò lui e la piccola fece i pochi passi e si buttò tra le braccia del padre.
«Signora, se ha comandi per me...». — «No. Gesuina, per questa settimana è tutto fatto. Tua figlia questa? Come si chiama?»
— «Celestina». — «Dalle un po’ più da mangiare, mi sembra deperita, se fossi in te le darei anche qualche ricostituente».
A nulla valse il togliersi il pane di bocca, a nulla valse il peregrinare di Gavino di paese in paese alla ricerca di un lavoro. A nulla valse rivolgersi al parroco e al sindaco: uno diceva di aver fiducia nella divina provvidenza, l'altro che la guerra avrebbe sistemato tutti. Celestina ebbe delle forti febbri che durarono per buona parte dell'inverno; si era agli inizi della primavera quando una notte il medico fu chiamato forte: — «Venga, per carità, la bambina sta morendo!» Era stesa sul letto, arsa di febbre, col ventre gonfio e un roco affannoso respirare. Il dottore le fece varie iniezioni: — «Non morirà?» — «Eh, che pazzia, non si muore per così poco».
Ora erano lì, loro tre soli per l’ultima volta. Piombo era il silenzio della notte. Poi un grido alto, frenetico, perforò il sonno di tutti nelle case vicine. Tutti, svegli di soprassalto, corsero alle finestre o per la strada. Adesso nettamente si udiva una cascata di singhiozzi pieni, profondi come un canto, che prendeva motivo prima acuto, poi sempre più basso fino a tacere paurosamente senza respiro, e poi di nuovo acuto, sempre più travolgente, sempre più agghiacciante. Sembrò impossibile calmare Gesuina squassata dal pianto. Gavino. il capo poggiato sul braccio, sembrava dormisse. Le donne si disposero in circolo intorno alla stanza e incominciarono i canti e le preghiere, mentre gli uomini sedevano immobili in cucina: — «Nata piccola, si vedeva da principio».
— «Tutta la vita ha avuto fame». — «Avesse vissuto ancora un po’, chissà... Mandano in giro la voce che il bacino lo cominceranno in luglio».
Silvana Cichi

Aperte alle giovani le porte della cultura
Il Comitato Promotore dell’incontro di Primavera, del quale fanno parte alcune illustri personalità del mondo Culturale ed Artistico, ha lanciato per tutte le ragazze italiane un concorso culturale ed artistico ed un concorso di Moda di lavoro femminile.
Temi del primo concorso sono: Pittura, Scultura, Disegno, Fotografia. Poesia, Racconto, Fiaba, Tema per le Scuole, Soggetto Teatrale e Soggetto Cinematografico, balletti. cori, complessi teatrali e folkloristici.
Per il secondo concorso: Abbigliamento, lavori in pizzi, lavori in paglia, lavori in ricamo e traforo, tessuti a mano, lavori in vetro, ceramica e cesellatura ecc. ed inoltre modello abito, modello per camicetta, cappello, borsetta e modello di costume tradizionale od invenzione su bambola. Numerosi e bei premi sono in palio per entrambi i concorsi, ai quali potranno prendere parte le ragazze che non abbiano superato i 25 anni.
Termine di presentazione delle opere di disegno e letteratura 20 aprile 1952 e dei lavori di artigianato 20 marzo 1952.
Le Mostre Nazionali avranno luogo rispettivamente a Bologna e Firenze ed in tale occasione avrà luogo la premiazione delle vincitrici da parte di una apposita giuria.
I fini che questi concorsi si propongono di raggiungere si possono così riassumere:
1) dare a numerose giovani la possibilità di far valere il loro talento e le loro capacità.
2) permettere la valutazione delle qualità ancora troppo sconosciute di numerose ragazze.
3) offrire loro, insieme ad un aiuto, la possibilità di migliorarsi incoraggiandole, per far si che possano guardare la vita con fiducia nuova.
Perciò tutte le ragazze d’Italia sono invitate a partecipare a questi concorsi. Per tutte le informazioni rivolgersi alla segreteria Nazionale del Comitato Incontro di Primavera, Roma, Via del Conservatorio, 55.

Libri per voi
Venturoli e Zangrandi
Dizionario della paura
Ed. Nistri Lischi
Ci sono dei libri che tutti possono leggere, aperti a un vasto mondo, con dentro i problemi e le ansie di quel vasto mondo: libri per giovani e per vecchi, per operai e per professori, per gente del nostro paese e di tutti i paesi.
Ma ci sono anche i libri che — senza esser nè scientifici nè specializzati — parlano a un loro gruppo di ascoltatori, sono scritti per Tizio e molto meno per Caio, per noi di qui più che per quelli di un altro paese: libri che trovano una loro ragion di essere e una loro forza e un loro stato di grazia solo nell'incontro con il loro pubblico particolare: per quel pubblico particolare, sanno essere amici durevoli e importanti.
A questa categoria appartiene il Dizionario della paura, il lungo scambio di lettere e di idee a cui gli autori, due giovani intellettuali romani, hanno voluto dare un carattere «esemplificativo» per molti giovani o men giovani, che come loro hanno discusso sul tema grosso dell'orientamento ideologico nella borghesia intellettuale italiana. Dei due interlocutori, Ruggero Zangrandi è un comunista, che viene dall’esperienza durissima della prigionia in Germania e della lotta antifascista: Marcello Venturoli è un giornalista e critico d'arte, che viene da un decennio di piccoli impieghi ministeriali, dal disgusto di tutta la vecchia impalcatura fascista; insofferente di un’Italia governativa di «dopo il 18 aprile», pieno di una sincera ansia di rinnovamento e di libertà per tutti, propone all'amico un pacato scambio di idee, da cui potranno emergere i motivi delle proprie esitazioni ad accettare pienamente la politica e i sistemi della classe operaia e insieme farsi più chiari all’amico i motivi della propria adesione a un partito e ad una ideologia difficile e rischiosa.
Quanti hanno il gusto della sincera e minuta analisi di situazioni mentali e anche di pregiudizi o passioni, quanti sentono con serietà gli impegni positivi di una persona colta e intelligente con la società che la circonda non hanno trovato nelle «confidenze» di Marcello e di Ruggero delle amene chiacchierate sul più o sul meno, ma un contributo schietto e onesto alla giusta impostazione del loro operare. Spira dalle lettere un’aria accogliente di civiltà intellettuale che ha messo rispetto anche agli avversari politici: la vivace e saporosa scrittura del Venturoli, quella più schiva ma non meno immediata dello Zangrandi s’intrecciano chiaroscurando il libro in modo suggestivo ed efficace.
Le lettere sono del '49-'50: già a così breve distanza di tempo, ne balzano fuori giudizi, osservazioni che hanno un singolare valore di documento.
Forse non molte delle nostre lettrici potranno riconoscere la propria storia spirituale nella storia di Ruggero e di Marcello: molte delle cose che, nei loro discorsi, più li impegnano e li appassionano, sono lontane dai problemi diversi e urgenti che ci tormentano, dagli interrogativi che ci fanno pensare.
Il Dizionario della paura è il libro che noi possiamo regalare all’amico colto che ci mette in difficoltà con le sue domande «difficili» che vediamo scontento e ansioso di meglio e insieme o scettico o deluso.
E’ il libro che ha fatto discutere e farà ancora discutere i giovani intellettuali che hanno paura di non essere capiti, di essere sacrificati o trascurati dalla classe operaia e dai partiti che ne sono la guida.
E’ un libro che non «passa sopra» a chi lo legge, ma lo impegna a mettere la propria sincerità e lealtà accanto a quella di Marcello e di Ruggero.
Ecco perché — anche se non è, come dicevamo prima, un libro per tutti — il Dizionario resta, nella recente produzione letteraria italiana — un’azione generosa, una buona azione.
L.I.
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