Numero 11 del 2008
L'inverno dei diritti
Testi pagina 10
novembre 2008 noidonne10
Iprogressi della biomedicina hanno tra-sformato, nel giro di pochi decenni, le
circostanze e le modalità del morire e
insieme hanno contribuito a mutare le
visioni della morte. Lo storico francese
Philippe Ariès, nella 'Storia della morte
in Occidente', ha mostrato come gli at-
teggiamenti verso le ultime fasi della vi-
ta siano progressivamente andati mu-
tando e si sia passati, nei secoli,
dall''accettazione della morte', vissuta
come un evento naturale, a una 'nega-
zione della morte', propria della società
moderna e contemporanea.
La tecnologia medica moderna è or-
mai in grado di rimandare indefinita-
mente la morte, prolungando una con-
dizione vegetativa ben oltre il punto in
cui la vita ha ancora valore e significa-
to per la persona. E' in questo contesto -
che vede una crescente medicalizzazio-
ne degli eventi più privati dell'esistenza
- che il diritto di morire può configurar-
si come insito nella dignità umana, co-
me 'diritto alla propria morte'. Se rico-
nosciamo che la mortalità è una carat-
teristica integrale della vita e non una
sua estranea degradazione (la vita è
mortale proprio perché è vita), dobbia-
mo, altresì, recuperarne il significato
fondamentale per l'esistenza terrena. Da
qui la necessità, per ciascuno, di pren-
dere possesso della propria morte, di
guardarla in faccia nel momento in cui
essa sta per divenire reale. In questo
senso, ha scritto Hans Jonas in un cele-
bre testo 'Il diritto di morire' (Ed. Il Me-
langolo) "non si deve negare a un mo-
rente la sua prerogativa di entrare in
rapporto con la fine che si avvicina e di
farla propria a suo modo, rassegnando-
si, riappacificandosi con lei o rifiutan-
dola, in ogni caso, comunque, nella di-
gnità del sapere".
Si potrebbe ancora aggiungere che
l'affermazione di un diritto si collega
strettamente alla difesa di un valore mi-
nacciato. A ben vedere, i diritti non na-
scono tutti in una volta ma si afferma-
no quando, ad esempio, l'aumento del
nostro potere sull'uomo - indotto dai
progressi tecnologici - crea minacce ine-
dite e imprevedibili alle libertà indivi-
duali. E' proprio il nostro potere, la no-
stra capacità di mettere in questione un
valore, a farcene riscoprire il significato.
In tal senso, il diritto di morire nasce per
difendere un valore minacciato: quello
di una vita che non sia mera sopravvi-
venza biologica ma esistenza biografica
degna di essere vissuta. Ma in che senso
morire può considerarsi un diritto? Si
tratta, certo, di un diritto paradossale
dal momento che ogni nostra rivendica-
zione si riferisce a quello che è conside-
rato il diritto fondamentale, il diritto di
vivere. Tanto più singolare, quindi, è
parlare di un diritto alla morte dal mo-
mento che comunemente si aspira ai di-
ritti per promuovere un bene, mentre la
morte è considerata un male o quanto
meno qualcosa cui occorre forzatamen-
te rassegnarsi. Chi rivendica il diritto di
morire con dignità dev'essere costretto a
vivere suo malgrado? Fino a che punto
debbono valere le richieste e le aspetta-
tive del mondo nei confronti del singolo
individuo? Quali sono i limiti dell'inge-
renza del sociale nella più intima sfera
di libertà del soggetto? All'interno di
un'etica laica e pluralista, dovrebbe es-
sere garantito sia il diritto di chi ritiene
che la vita umana sia sacra e inviolabi-
le, in quanto dono di Dio, e che all'uo-
mo non sia consentito disporne, sia il
diritto di chi, considerando la propria
vita un bene a sua disposizione, intende
esercitare il suo diritto di autodetermi-
nazione, scegliendo la morte.
La nostra società accetta il suicidio
come un fatto privato, una scelta perso-
nale, non legalmente perseguibile. Na-
turalmente possono divergere le nostre
opinioni al riguardo. Alcuni di noi riter-
ranno il suicidio un "peccato", un atto
di disperazione, di orgoglio, di estrema
ribellione contro Dio, altri lo riguarde-
ranno come un gesto di libertà, di su-
prema, tragica, autodeterminazione, di
affermazione di dignità contro una vita
ritenuta non più meritevole di essere vis-
suta: è il contrasto tra la visione cristia-
na e la visione classica di matrice stoi-
ca. In entrambi i casi, quali che siano le
nostre opinioni, non si potrà in alcun
modo ritenere il suicidio un "reato". Ci
sono ancora, nel mondo, condanne a vi-
ta ma la vita stessa può, in certe situa-
zioni, essere una condanna. Aiutare a
morire, per alcuni, è un gesto di profon-
da solidarietà umana, per altri, una
complicità intollerabile.
La nascita della bioetica, negli anni
settanta, ha posto al centro del dibatti-
to le cosiddette questioni di 'entrata' e
'uscita' dalla vita, stimolando una pro-
gressiva presa di coscienza nei confron-
ti dei problemi connessi al morire. Se la
morte è per l'uomo un evento inevitabi-
le, è anche un fatto eminentemente 'per-
sonale', da assumere coscientemente e
Testamento biologico, atto d’amore
per la vita
Parliamo di bioetica
Luisella Battaglia